La percezione che abbiamo di Dante è che egli sia stato soprattutto un poeta, e non un politico; che sia vissuto in un’epoca barbara; che a causa di dinamiche ai suoi tempi ordinarie abbia vissuto la ferita dell’esilio; che le sue invettive lo rivelino un po’ troppo vittimistico e autocommiseratorio.

Percezione distorta, come vedremo, ma inevitabile. Il punto è che ci stiamo preparando a consegnarlo all’Europa - in parte lo abbiamo già fatto - in questa veste. È già iniziato, infatti, il toto dei papabili ad entrare nel pantheon dei padri sovranazionali. Ma se la sua immagine è così sfocata in patria, come possiamo sperare che all’estero sia letta con maggiori diottrie?

Occasione sprecata non tanto per Dante, ma per noi italiani. I simboli e le icone attraverso cui ci raccontiamo sono fondamentali, perché fungono da stimolo in patria e da correttore degli stereotipi oltreconfine (vedi quello doloroso del “mafia-pizza-mandolino”).

La cultura scientifica procede in maniera opposta a quella umanistica: la prima si libera – buttandole a mare – delle teorie obsolete e sbagliate; la seconda procede per accumulo. In campo umanistico non si sostituisce mai, si aggiunge questo a quello, senza preoccuparsi troppo del fatto che questo contraddica quello. Ciò è possibile perché è diffusa l’idea che la cultura – in fondo – non uccida nessuno. Vero. La cultura, però, ha il compito di educare e educare significa soprattutto scegliere. Scegliere i contenuti formali attraverso cui trasmettere idee, principi, valori.

Se la vita di Dante è raccontata male nei manuali è perché l’averlo considerato un poeta ci ha fatto dimenticare le cautele che di solito usiamo per pesare la vita dei politici. Davanti a un Aldo Moro o a un Giorgio Napolitano, tutti controlleremmo le fonti da cui provengono le informazioni che li riguardano, perché in quel caso valutiamo il rischio del filtro ideologico.

La vicenda biografia di Dante è stata messa a punto nel corso del Tre-Quattrocento, poi si è trattato solo di aggiustamenti e note a latere. Il primo sistematore della sua vicenda biografica è stato il cronista Giovanni Villani. Villani non nega del tutto gli eventi che costrinsero Dante all’esilio – i fatti erano allora troppo freschi nella memoria di tutti – ma inquina le prove, con una serie di piccole bugie e omissioni. Una su tutte? Sostiene che a consigliare di far rientrare i golpisti fu il capo del partito di Dante, Vieri de’ Cerchi, e non il paciere inviato da Bonifacio VIII, che di notte, proditoriamente, aprì loro la porta d’Oltrarno…

Dobbiamo ripartire da un fatto: Dante fu soprattutto un politico. La Commedia arriva dopo, quando è ormai da molti anni in esilio. La sua vicenda politica è di estremo imbarazzo per il partito dei vincitori, il quale non di meno è costretto a raccontarla, e lo fa a modo suo. Se nessuno intervenne a correggere questa stortura (quella di un vinto raccontato dal vincitore) è perché a Firenze, poco dopo, s’insediano i Medici, e i Medici, all’epoca dei fatti che determinarono l’esilio di Dante, militavano nel partito avverso al suo, proprio nella sua frangia più violenta e priva di scrupoli.

Un’altra versione dei fatti però c’è, si è salvata. È la versione di Dino Compagni, un compagno di partito di Dante, che non poté divulgare la sua cronaca per i motivi sopradetti. Ci volle un lungo lavorio filologico per riportarla in luce e dimostrarne – ci si arrivò solo agli inizi del Novecento! - l’autenticità.

Per ciò che riguarda la vicenda politica di Dante, a conferma delle cose dette dal Compagni, ci sono i verbali delle sedute consiliari: Dante vi si espresse e la sua voce è inequivocabile! In qualità di  priore, di ambasciatore e infine di consigliere dei Cento, Dante cercò di potenziare la milizia cittadina pagata con fondi pubblici, a scapito  delle armi private; di proteggere gli Ordinamenti di giustizia, che miravano a buttare fuori dalla città le faide delle aristocrazie feudali;  di favorire una più larga rappresentanza politica (il suo partito pensava anche ai super-esclusi: i  ghibellini); di bloccare gli aiuti a Bonifacio VIII; di applicare le pene  previste per quei banchieri fiorentini, che appaltassero la città al papa.

A rovesciare con un colpo di stato il governo del partito di Dante - ciò va detto - non fu esattamente il partito dei suoi avversari, ma una sua frangia estremistica, quella capeggiata da Corso Donati, uomo inviso a quelli del suo stesso partito. Furono le squadracce di Corso Donati, grazie all’appoggio di Bonifacio VIII, a mettere a ferro e fuoco la città, travolgendo le sue istituzioni democratiche. Il resto è Storia: Dante, che in quel momento è a Roma, non rientrerà più a Firenze. Potrebbe farlo, a prezzo, però, di ammettere i reati di peculato e concussione e di riconoscere la legittimità del governo golpista. Un prezzo troppo alto per lui, anche perché gli si chiede di restituire “il maltolto”, lui, però, non ha “tolto” niente, come dimostrerà la magra lista delle proprietà confiscategli e la povertà nera in cui piombò negli anni dell’esilio. No, Dante non aveva messo nulla da parte alle isole Cayman!

È sempre difficile fare i conti con la propria storia, arriva però un momento in cui non farli implicherebbe costi maggiori. Interroghiamoci, dunque, una volta per tutte: chi stiamo celebrando come nostro “padre della patria”?

Immagine: Firenze, piazza Santa Croce. Monumento a Dante Alighieri (Enrico Pazzi, 1865). Crediti: xsmirnovx / Shutterstock.com

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