Spesso si cade nell’errore che nelle note tenui e graziose di una poesia si possa nascondere un sostanziale pressappochismo, specie quando le impressioni quotidiane e le percezioni immediate coincidono con il momento vibrante della rivelazione. Accade così che si approda nella terra delle sfumature – Verlaine ne è il fulgido esempio –, dove è facile confondere il linguaggio comune con uno assolutamente ignoto: sogno e morbosità restituiscono a un insieme di elementi – perlopiù figure fragili ma non per questo meno profonde –, un’esistenza ossessionata da luci composite. Comodo è apporre l’etichetta del Fanciullino a un autore che scrisse la tesi su Pascoli, eppure bisogna prendere le dovute precauzioni per affermare che l’estetica adottata sia un rewind, piuttosto si deve pensare a una conquistata marginalità, attraverso la quale il verso recupera una speciale innocenza.

Gigi per i parenti, Pippo per gli amici, Filippo Tibertelli per l’anagrafe, De Pisis legge le poesie di Leopardi regalategli dalla madre, studia con interesse il decadentismo europeo, in particolare Baudelaire e Rilke, nel 1916 pubblica la raccolta I canti della Croara, con la prefazione di Govoni, nel ’42 con i tipi di Valsecchi con il titolo di Poesie, alcune già incluse nella raccolta di pochi anni prima con l’editrice Modernissima, molte di queste scritte – come il suo amico Penna – su foglietti sparsi, su buste, con il lapis. Si confessa: «Sono belle le mie poesie? Non so, non so!... forse, no, certo no, ma insomma, che volete farci, quando le scrivo sono felice come un dio!»*. Nella sua casa a Ferrara il solaio si converte a studio ideale, in cui legge, scrive, abbozza i primi disegni in perfetto isolamento; frequenta la facoltà di Lettere a Bologna, si trasferisce poi a Parigi, dove sul terrazzino che si affaccia all’angolo tra rue Bonaparte e rue Jacob, coltiva i suoi fiori prediletti: piante di miosotis, una cineraria, vasetti di primule e serpollino, tutte immagini che cederanno al brivido della tela.

Nel 1930, durante il soggiorno a Cortina, dipinge un gladiolo rosa (Il gladiolo fulminato, olio su cartone), in una forma più grande rispetto agli altri fiori presenti nel vaso. Comisso dirà: «fa quasi pensare a un sesso femminile». Svetta nell’aria un segno giallo rassomigliante a un fulmine che fende la corolla, l’euforia dei sensi non si piega all’attività carnale, bensì trae la sua forza dalla violazione, come il tremito di chi d’improvviso perde le lenzuola e gli si gelano i piedi, una pulsione oscura a cui non sai rispondere, non meno conturbante dell’opera L’origine du monde di Courbet.

Così in pittura come in poesia, De Pisis svilupperà tutta la sua esperienza artistica come un pianto pronto a rompersi per nulla; i pochi tratti li adopera come l’espressione più intima ed efficace della sua natura. Vedere le cose come per la prima volta è il punto di partenza, senza aprire alcun dibattito sulla tenerezza, per una poetica del furto, purché si prenda gioco della fisica che separa i sensi, puntando tutto su quegli sbuffi alchemici, su quelle operose evanescenze, che tanto sfuggono alle scuole di pensiero, come, ad esempio, in Sera Romagnola: «Do due franchini per il gelato / a un bimbo che conduce per la mano / la sorellina. Ecco, vedi la felicità / è in questa pace».

La parola suggerisce una seconda possibilità alla realtà che si presenta così com’è, dove non si muore del tutto se l’anima è spaesata, l’esterno è solo un confine che in questo caso l’ombra può illusoriamente valicare. Infatti, vaga e scompare come il passaggio sulla terra per ogni essere vivente, la ricerca di sé in un altro si compie attraverso un fuoriporta metafisico, sembra aver preso un appuntamento che attendeva da sempre, così in Lungo la strada: «Lungo una strada senza nome / in un dolce sogno, / incontro talora una dolce figura, / un amico, o forse me stesso. La spio di là da una siepe fiorita, / la seguo col cuore che batte, / ma quando da presso le tendo le braccia / svanisce come ombra leggera. E non mi resta che tornare solo».

Vicino a Corazzini, non senza una traccia surrealista – tiene una fitta corrispondenza con Tzara, a Parigi mostrerà una serie di opere pittoriche a Jacob e Cocteau –, il poeta veglia come in uno stato di allarme al tempo sospeso, dove l’epifania è morbidamente interrotta da volti e suoni privi di denominazione, ancora in Eco: «Non è un volto preciso / che si affaccia agli occhi de la memoria, / non è una voce distinta, è come un pianto leggero / che dentro germoglia e si accorda al ritmo della tua grazia. Pause, voci, richiami d’un tempo che fu. È come l’ombra delle ciglia / su una gota, / eco che si spegne / eppur ti tocca».

Distante da ogni esaltazione personale e da gesta eroiche, così legate ai protagonisti del romanticismo europeo, De Pisis stende una pagina umanissima, che percorre la direzione opposta, ciò che è piccolo è infinitamente grande nell’orizzonte della letteratura, un sublime d’en bas, capace di sentire l’essenziale nelle cose semplici, dove i desideri della sensualità non di rado si fondono con la saggezza culinaria, perché un innocuo particolare possa irradiare di verde una giornata qualunque. Ecco in L’Alloro: «È per me questo rametto secco / d’alloro sul lastrico grigio. Mi curvo a raccoglierlo / può servire per l’istinto della trota. Nessuno mai mi cingerà di una corona verde le tempia. Per me bastan queste umili foglie. Un profumo di bosco, atterrato, / voli di tordi nell’aria d’ametista / e il mio cuore sì lieve stasera / con le sue belle ali di vento».

Il bisogno di definire l’unità dei sensi si manifesta attraverso un chiaro fonosimbolismo, con l’utilizzo di onomatopee derivanti dall’esigenza sottile di ricercare la propria forma espressiva, di preservare la memoria privata grazie all’affondo genuino dei momenti osservati e sentiti.

Il poeta è felice se non dismette la sua musica bambina, rifacendo il verso al compagno di giochi, in Animalità: «Ho messo un po’ di latte nel piattino / cocò cauto si avvicina, porge il becco / lambisce con delizia a stilla a stilla / bon bon cocò / the the the.../ Anch’io curvo la testa / metto fuori la lingua / allora il cocò mi dà un becchetto / come a dire “fatti in là / che mangio io”. Come un brivido sottile / ecco mi par d’esser mutato / in un buon cane fedele, / in una bionda vacca da latte / e mi riscaldo beato al tepore di questa cara animalità».

E i ciangottii del pappagallo si rivelano l’unica lingua di salvezza nei periodi di sconforto e frustrazione, un daimon che conosce i meccanismi di ridesto, ancora in A Cocò: «Se mi sente piangere nel chiaro mattino / Cocò dal balcone fiorito / ecco s’impazienta, mi fa verso / e, cara bestiola, finisce col farmi sorridere / come il buffone del tiranno / come l’arlecchino della farsa / oieop oieop oieop».

Dopo la scomparsa della madre e un’aggressione con furto in casa a Venezia da parte di malviventi, viene ricoverato in una clinica, a Villa Fiorito. Lì soffre, a fasi alterne, di forti attacchi di nervi e di una crescente, secondo il parere dei medici, incurabile angoscia. Un episodio conferma la calda leggerezza di questo grande spirito: una mattina sotto i portici bolognesi prende di sorpresa un bambino e gli dipinge sulla guancia un fiore azzurro, poi gli dice con aria bonaria: «vai a venderlo e comprati le caramelle».

Muore il 2 aprile del 1955 a Milano, in casa del fratello. Un vecchietto che segue il feretro, esclama con meraviglia: «Era il figlio di Tibertelli. Era un ragazzetto: faceva delle poesie. Un ragazzetto. Erano dei signori: di quelli di una volta. Io ci vendevo delle semente. Semente di canapa. Ma dicono che era diventato un pittore: faceva dei quadri. Proprio un pittore. Pensare: era un ragazzetto, un ragazzetto un poco matto»**. Difficile trovare un’anima disposta ad ammettere che la gravità sia il suo peso maggiore, un trovatore fiabesco che insidia esili gambe di scolari, tramonti, albe, animali, cose, non può che respirare le oscillazioni della vita, molte delle quali ti fanno alzare un grido confuso d’amore, infine in Madri e Vedove: «Anch’io non ho nessuno al mondo stasera. Case bianche perché mi guardate così?».

*Nico Naldini, Vita solitaria di un poeta pittore, Edizioni Einaudi, 1990, p. 74

** Ibid., p. 296

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