18 novembre 2021

Lettere, di Fëdor Dostoevskij

L’imminente pubblicazione di un’edizione affidabile e criticamente raffinatissima delle lettere del segretario fiorentino Niccolò Machiavelli può a buon diritto essere ritenuta un punto di svolta negli studi cinquecenteschi e più latamente rinascimentali degli ultimi decenni. La natura di zibaldone, ovvero di una raccolta formatasi stratigraficamente nell’arco di svariati anni in assenza di un intento organizzativo sovrastante (come è il caso, per esempio, di parte del carteggio ciceroniano o di quello, sul primo modellato, di Petrarca) rende infatti la corrispondenza di Machiavelli un testimone cruciale della vita di un grande intellettuale, della storia d’Italia in un momento particolarmente rilevante – se non altro in prospettiva – della sua movimentata traiettoria politico-culturale e non da ultimo di quella del mondo mediterraneo nei decenni in cui gli effetti strutturali del viaggio di Colombo iniziavano a farsi sentire dal Portogallo alla Cina, con conseguenze che stiamo ancora sperimentando oggigiorno; tutto ciò, si intende, al netto del tesoro di lingua viva che le lettere rappresentano e della sterminata aneddotica (non di rado a sfondo burlesco-sessuale e notoriamente, almeno tra i corrispondenti, esilarante) che permea l’intera corrispondenza.

Un discorso in tutto e per tutto analogo può essere fatto in merito alle lettere di Dostoevskij, recentemente rese accessibili ad un pubblico italofono in una monumentale (oltre 1300 pagine) edizione con la traduzione curata da tre tra le maggiori esperte del grande romanziere.

Il parallelo con Machiavelli, per assurdo che possa sembrare, va infatti oltre la pressoché contemporanea pubblicazione dei rispettivi epistolari. Anche Fëdor Michailovič, infatti, rappresenta, al di là di uno dei più importanti autori (non solo) della sua tradizione nazionale, una figura di raccordo tra due epoche (non solo) letterarie, vivendo egli stesso la grande stagione del romanzo russo ottocentesco, da lui medesimo segnata – se non proprio trasformata radicalmente – in maniera indelebile.

C’è di più. Come per esempio dimostra in maniera inequivocabile il Diario di uno scrittore (esso stesso edizione – accuratamente rielaborata da parte dello stesso Dostoevskij – di parte del proprio carteggio con i lettori), oltre ad essere lo scrittore a tutti noto, il mancato, verrebbe da dire per sua fortuna e dei suoi datori di lavoro, ingegnere militare moscovita fu anche uno straordinario imprenditore della cultura, sensibilissimo scienziato sociale e ritrattista implacabile di un ambiente, quello della Russia di metà XIX secolo, in drastico, tumultuoso e spietato cambiamento.

Di tutto questo le Lettere recano traccia ben visibile per colui che abbia gli occhi per vedere e una visione sufficientemente ampia del paesaggio nel quale, fin da bambino, Fëdor Michailovič si muoveva. Uno tra i numerosi motivi che fanno di un confronto sostenuto con questo epistolario un’impresa fruttuosa non solo per lo specialista è dato infatti dall’affastellarsi vertiginoso di personaggi da (tragi)commedia umana di cui esso è permeato, e che precipiteranno, sapientemente filtrati, nelle opere narrative. Alcuni esempi basteranno a rendere un’idea: le – insistenti al limite della petulanza – richieste di denaro di un giovane collegiale al padre, un figlio di pope bielorussi assurto al rango di (piccolissima) nobiltà – quella costantemente vagheggiata da Akakij Akakievič, per capirsi – a prezzo di sacrifici inenarrabili offrono uno spaccato tanto succoso quanto conturbante della dolce vita della Mosca ottocentesca a un piano inferiore, e alcuni anni dopo, rispetto a quella che fa capolino (per davvero «ultimi sogni del vecchio mondo») in una delle pagine più travolgenti di Guerra e pace.

I Kumanin, zii materni e benefattori della famiglia Dostoevskij nel momento in cui le velleità imprenditoriali del padre vengono soffocate, letteralmente, nel sangue dai contadini inferociti rischiando così di gettare la vedova e i due figli sul lastrico offrono un potente negativo di un ceto sociale nei confronti del quale, forse in misura non trascurabile anche in virtù del disprezzo mostrato proprio dagli zii nei confronti di Michail Andreevič e delle sue – più che modeste – origini, Dostoevskij nutrirà per tutta la vita un sordo rancore.

Anche non volendosi abbandonare a psicologismi spicci, è chiaro che su uno sfondo di questo genere la sinistra accoppiata denaro-perversione (spesso e volentieri di contenuto sessuale) che permea di sé l’intera opera di Fëdor Michailovič – basti pensare all’usuraia di Delitto e castigo o alla scena allucinata de L’idiota in cui Nastas′ja Filippovna getta un’intera bobina di banconote nel camino sfidando il proprio pretendente a lasciarle ardere quale pegno d’amore – assume tutto un altro spessore e richiede di essere analizzata in prospettiva storica, a partire dall’esperienza che lo stesso Dostoevskij fece del capitalismo di rapina che stava mettendo radici in Russia proprio in quel torno d’anni. Non solo a Pietroburgo, che sull’onda del Cavaliere di bronzo e di Gogol′ si consacra nell’autore dei Karamazov la città alienante per eccellenza, o a Mosca, che in Dostoevskij è pressoché totalmente assente ma la cui impronta (di cui il carteggio reca traccia) permea di sé la visione del mondo che i romanzi veicolano, ma anche nella campagna, di cui il minore dei figli di Michail Andreevič ha lasciato alcuni tra i ritratti più spaventosi che la narrativa mondiale ricordi, con buona pace dell’ideale storiosofico del mužik quale depositario di una nobiltà primigenia e foriera, se attivamente supportata, di un futuro alternativo (e migliore) per l’intera comunità di destino russa che permea la riflessione filosofico-teologica dell’ultimo Dostoevskij.

Varrà la pena ricordare che qualcosa di quell’ideale – perché tale era – non è estraneo neppure a Tolstoj (il quale di Dostoevskij, da lui per altro mai incontrato, disse che non aveva idea, a differenza sua, ovviamente, di come organizzare una trama, ma che ogni cento pagine di idiozie ne scriveva una che nessuno avrebbe mai potuto eguagliare), come dimostra, a parte la fase terminale della vita del conte, la sublime scena della fienagione di Levin in Anna Karenina. Né lo era ad altri, più giovani, contemporanei di Dostoevskij, ai quali l’origine provinciale e concrete esperienze di vita permisero di elaborare una critica tra le più spietate sia dell’idea dostoevskiana sia dell’elegia di Tolstoj. Uno fu Čechov (basti pensare al terrificante La voglia di dormire), l’altro fu il Vladimir Ul′janov, autore de Lo sviluppo del capitalismo in Russia.

Va da sé che una raccolta di lettere non si lascia leggere da cima a fondo con la stessa facilità di un romanzo. Per chi fosse tuttavia interessato a comprendere sia gli anni di formazione di uno dei più grandi scrittori mai esistiti sia il mondo nel quale visse, e la cui lunga ombra ancora si aggira tra le lande della Russia, questa edizione delle Lettere di Fëdor Michailovič Dostoevskij rappresenta una bussola sicura. Certo, il prezzo può intimidire, ma varrà la pena, di tanto in tanto, ricordare che il lavoro va pagato per ciò che vale, e non (per lo meno non solo) per ciò che il mercato suggerisce o impone.

 

Fëdor Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina, Elena Freda Piredda, Milano, il Saggiatore, 2020, pp. 1376

 

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