Parafrasando un celeberrimo aforisma di Stalin, così come le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli, si potrebbe ugualmente sostenere che il destino dei figli non dovrebbe ricadere sui padri. Se e in che misura ciò sia evitabile qualora ci si trovi nel ruolo ‒ se ingrato o no è una questione destinata a restare irrisolta, di certo, dal punto di vista della memoria storica ‒, alquanto scomodo, di genitore di Alessandro Magno è ben evidenziato dalla (s)fortuna storiografica di Filippo II, senza dubbio alcuno tra le personalità più influenti della storia greca e tuttavia a lungo rimasto nell’ombra dell’ingombrantissimo figlio, al massimo relegato al decisamente ingeneroso ruolo di fautore delle condizioni che avrebbero permesso all’aitante rampollo argeade di conquistare l’Impero persiano e con esso l’immortalità a seguito della sua dipartita appena trentatreenne: come diceva Menandro, muore giovane chi agli dei è caro.
Filippo II, tuttavia, fu assai più del padre di suo figlio. A voler essere reticenti, egli fu almeno, come ben evidenziato dal sottotitolo della recente biografia di Giuseppe Squillace a lui dedicata, un abile (abilissimo) stratega e un fine comunicatore – fatto non trascurabile viste le supposte origini barbare (montanare, nelle parole che Arriano di Nicomedia mette in bocca ad Alessandro nella celeberrima tirata oratoria di Opi) della dinastia macedone e la concorrenza sulla base della quale le doti retoriche di Filippo venivano misurate: Demade, Iperide, Isocrate, Aristotele, ovviamente Demostene.
Il saggio di Squillace, suddiviso in quattro parti per un totale di quattordici capitoli distribuiti su circa duecento pagine alle quali si debbono aggiungere un poderoso apparato di note, una ricca genealogia ed un’utile appendice cartografica, offre al lettore allo stesso tempo un aggiornato profilo biografico della vita del sovrano argeade, si concentra (nell’introduzione) sui molti volti che la sua figura ha assunto nel corso della storia degli studi – un sintomo evidente del fascino che l’uomo e forse di più ancora quella che veniva percepita come la sua opera di statista erano in grado di suscitare – nonché sul mondo nel quale egli visse ed operò. In questo modo, un aspetto di non poco rilievo che merita di essere sottolineato con una certa enfasi, il IV secolo a.C. perde non poca di quell’aura epigonica di cui ancora troppo spesso soffre, se non altro al di fuori dell’accademia (che, i maligni potrebbero suggerire, è poi dove conta davvero) specie se posto a confronto, per lo più indebitamente, con l’onnipresente V secolo, per stagliarsi invece in tutta la sua dignità come un’epoca tumultuosa di sviluppi locali, regionali e globali, ricca di attori tra loro concorrenti e talvolta cooperanti, di alleanze mutevoli, di guerre (tante) e di paci (non meno numerose), di scoperte e innovazioni tecniche, di fioritura delle arti, del pensiero, e della parola, di cui come accennato Filippo stesso fu indiscusso maestro.
Quella di Squillace è una biografia molto tradizionale, ma di cui si apprezza in particolare l’estensiva citazione delle fonti antiche (specialmente l’oratoria): ciò è in parte ovviamente condizionato dal fatto che, con poche eccezioni come i sensazionali, e ancora oggi di interpretazione incerta, reperti di Vergina, è ad uno sguardo (e ad una voce) esterni, spesso ostili, che dobbiamo affidarci per ricostruire il cinquantennio circa della vita di Filippo. Tuttavia, in un’opera di seppur alta divulgazione quale questa si propone di essere, far sì che il suo pubblico incontri nel corpo del testo la viva voce dei protagonisti delle vicende di cui si legge, senza dover andarle a riesumare nel cumulo delle note (sfortunatamente affastellate al termine del libro e non a piè di pagina: scelta editoriale discutibile) permette di dare concretezza immediata a fatti e individui che la manualistica scolastica troppo stesso tende a trasformare in inerti statue di cera, togliendo loro tutto ciò che rende gli uomini, anche i meno specchiati – e all’epoca di Filippo tali figuri non latitavano – particolarmente interessanti.
Quella della Macedonia di Filippo non è solo una storia greca: nel volume un ruolo di notevole importanza giocano le innumerevoli popolazioni balcaniche contro le quali il sovrano dovette combattere per affermare la propria supremazia regionale, con le quali non di rado si alleò onde avere la schiena coperta per potersi più agevolmente concentrare sulla Grecia e dei cui esponenti più facoltosi non mancò di apprezzare le figlie (un nome su tutti: l’epirota Olimpiade, che avrà assomigliato, o forse no, all’Angelina Jolie del chiacchierato Alexander di Oliver Stone, ma la cui leggenda nera prosperante nel mondo androcentrico della letteratura classica basta e avanza a metterne in luce le doti). Fu un mondo, per riprendere il titolo di un altro, celeberrimo studio, al di là di Sparta e Atene, in cui aree solo apparentemente marginali come la Focide o la Beozia si dimostrano decisive nel plasmare lo scacchiere geopolitico all’interno del quale Filippo astutamente (e non di rado in maniera spregiudicata, spesso brutale) si mosse, in cui la Tessaglia emerge come fattore decisivo negli sviluppi della polemologia contemporanea, non diversamente dalla Magna Grecia o dall’Anatolia.
Il convitato di pietra in questo quadro, ovviamente, è l’Impero persiano, che Squillace descrive (p. 189) in ossequio a una persistente tradizione all’interno della storiografia classica la quale però appare sempre meno sostenibile, come un impero in rovina. All’epoca di Filippo, e così sarebbe stato ancora lungo tutta la carriera del di lui figlio, la Persia achemenide costituiva la superpotenza indiscussa dell’Eurasia orientale, il cui ruolo nel condizionare, non di rado in funzione propositiva, di contaminazione e influssi culturali, per esempio, la società di corte macedone e dunque il mondo simbolico e le categorie mentali di Filippo (per non parlare dei suoi legami personali), non può essere enfatizzato a sufficienza. Paradossalmente, si potrebbe addirittura sostenere che la conquista macedone fu, da un certo punto di vista, l’ultimo lascito dell’impero stesso, che quella remota periferia non solo aveva conquistato e sottomesso a partire almeno dall’epoca di Dario, ma nel tempo trasformato in un attore geopolitico di primaria importanza.
Uno dei più lirici cantori dell’ellenismo novecentesco (coloniale), l’inglese William Tarn, aprì un suo celeberrimo saggio del 1938 sostenendo che «ogni storia ha un antefatto». Nel caso della carriera folgorante di Alessandro, e come ben messo in luce da Squillace nella sua monografia, quell’antefatto, e molto di più, reca i contorni di suo padre Filippo.
Giuseppe Squillace, Filippo II di Macedonia. Abile stratega, fine comunicatore, padre di Alessandro Magno, Roma, Salerno Editrice, 2022, pp. 360