È attraverso la poesia e il pensiero di Friedrich Hölderlin che diventa possibile comprendere come l’inno, già studiato e plasmato da Klopstock nel XVIII secolo in ambito tedesco a partire dall’esempio pindarico, non possa trovare nella modernità compimento e realizzazione altrimenti che nel proprio naufragio, in un canto che all’acme del proprio slancio non farà che frantumarsi in compianto elegiaco, gravido di nostalgia e lacrime. Non è solamente lo iato che lo separa dagli dei e che trasforma l’esperienza che il poeta ha di essi in follia e disperazione a tormentare Hölderlin, ma anche la certezza della natura inattingibile dell’altro cui egli si appella affinché l’hic et nunc del mondo nel quale vive non corrisponda più meramente solo a sé stesso, intridendone così le fibre di grecità e passato, di una trascendenza del tutto presente e invischiata all’immanenza; e la malattia che questa consapevolezza provoca, il terrore che tale impalpabilità spalanca, altro non sarà che il lavorio del pensiero all’interno della scrittura e del canto degli ultimi due secoli, latore incessante di turbamento e angoscia tali da rendere il terreno sul quale i piedi sembravano saldamente piantati fragile e sdrucciolevole. Appare in questo senso evidente come l’esperienza artistica contemporanea sia spinta a lavorare non tanto sulla pienezza della parola quanto sulle lacerazioni che la attraversano e ne sbrindellano il tessuto, che la rendono nomade e apparentemente priva di alcuna direzione; ritrovando tuttavia in tal modo una compiutezza la cui paradossalità non potrà sfuggire a nessuno tanto è palese, la forza della quale sarà da rintracciare nel suo affanno, nell’afasia che cosparge il suo corpo di lacune e zone invisibili, sfuggenti, per nulla inclini a cedere ad avvicinamenti didattici o razionalizzanti.

L’opera di Bob Dylan svolge in questa prospettiva un ruolo assai importante: nel tentativo di ricomporre il vincolo fra canto e parola in una forma estetica attraverso la quale a rivelarsi non sarà altro che la saldatura fra destino e individuo intesa come Paradiso Perduto e poi Ritrovato, cerchio nuovamente compiuto e non più frantumato, Dylan scopre ogni volta che il lavoro della sua scrittura giunge sempre a un punto cieco, a un’opacità dalla quale trapela la certezza che la ferita non possa essere curata nella continuità della Storia, bensì evadendo da essa verso quei bagliori che improvvisi squarciano la notte; verso quelle canzoni, insomma, che sono a tutti gli effetti eventi implicanti materia e spirito, elementi nel nostro mondo normalmente distaccati e inconciliabili, la cui durata tuttavia sarà fugace, dal punto di vista di ciò che è utile quasi inconsistente, nulla più di un battito di ciglia. In Not dark yet, brano cruciale di Time out of mind, la sua voce che si spezza proprio quando dolente pronuncia why è, fra questi, momento di intensità profonda, capace di trasmettere conoscenza grazie alla sofferenza, per riprendere Eschilo.

Il carattere apparentemente compilativo che contraddistingue la struttura del suo ultimo libro, Filosofia della canzone moderna (pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Alessandro Carrera), non dovrà perciò trarre in inganno: con un’ironia del tutto affine a quella messa in atto da Greil Marcus nel suo Storia del rock in dieci canzoni, merce rarissima in un mondo serioso e zitellesco come quello odierno della musica, dimentico si direbbe delle proprie radici più dionisiache, Dylan scompagina il concetto di Hall of Fame e costruisce una rete intricata e allusiva fra le cui linee ogni rima, soprattutto la più imprevedibile, sembra possibile. In questo modo è un cosmo a sorgere dalle pagine dylaniane, un mondo che alla sequenza di sessantasei canzoni intreccia immagini, ricordi, altri mondi, riflessioni, creando così cortocircuiti e improvvise adiacenze: nella canzone Dylan abbandona la concezione di luogo, così legato a una materialità fine a sé stessa e senza sbocchi, per ritrovare al suo interno il genius smarrito e aprirsi così a uno spazio dove risonanze e somiglianze echeggiano senza fine, illuminando e allo stesso tempo confondendo il lettore.

Un esempio interessantissimo di questo cosmo in rima e soggetto a espansioni improvvise è il capitolo dedicato a Ruby, are you mad? degli Osborne Brothers: con un gesto che caratterizza molte pagine del libro, Dylan si rivolge direttamente al lettore con un “tu” che ha la forza e la capacità di calarlo fra le pieghe di quel mondo «prestandogli la parola» (per riprendere una bella definizione che Jesper Svenbro ha utilizzato per descrivere come l’osservatore, di fronte alla statua del kuros, doni a esso vita pronunciando con la propria voce la frase che ai piedi del colosso viene attribuita alla divinità in quella pietra rappresentata), amplificando così i riverberi che il brano già sprigionava a proposito di una ragazza «che può ridarti ogni cosa che hai perduto e poi fartela perdere di nuovo»; ma la parola si scuote, il significante vibra, e le immagini che accompagnano il testo sono quelle di una Ruby molto diversa (o forse sempre la stessa?), nei panni maschili e sanguinari di Jack Ruby che uccide Oswald, lasciando così sgorgare da sé le note di Murder most foul, i cui primi versi raccontano il giorno della morte di Kennedy a Dallas.

Attraversa tutto il libro una sensazione di esilio profonda e insanabile, la sensazione che il luogo dove si possa essere felici sia irrimediabilmente smarrito e, se anche lo si ritrovasse, non sarebbe altro che una fantasticheria, poiché laggiù «sono tutti morti o se ne sono andati. La ragazza dei tuoi sogni si è sposata molto tempo fa con un avvocato divorzista e ha tre figli». Può darsi che fra le pagine di Filosofia della canzone moderna emerga qualche tratto più definito di Dylan, il cui enigma non è mai stato realmente messo in luce, che da questo mondo così abilmente plasmato traspaia qualcosa che, sul fondo, da molto tempo tenta di affiorare in superficie, come il belletto e l’artificio non nascondono ma rivelano il vero carattere e la tragedia ad esso intrecciata. Ma forse a Dylan questa metafora, troppo melodrammatica e scontata, non piacerebbe. L’opera, cui questo volume profondo e importante si aggiunge, rendendola ancora più complessa, è fondamentale e rimane, sembra suggerire l’autore con un’espressione dalla quale tuttavia è impossibile pensare assente malinconia e amarezza.

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, traduzione di Alessandro Carrera, Feltrinelli, 2022, pp. 352

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