Da questa settimana cominciamo una nuova serie di conversazioni con giovani intellettuali italiani: editori, scrittori, insegnanti, influencer, attivisti. Il nostro intento è dimostrare che esiste ancora una generazione di intellettuali pronta ad affrontare il presente con idee inattese e originali e a prendere posizione sui temi decisivi per il nostro futuro.

Molti filosofi hanno disputato attorno alla parola “utopia”. Alcuni credono che indichi un luogo che non esiste, o che non esiste ancora, che non è presente nelle carte geografiche (ou-topos); altri, d’altro canto, ribaltano la prospettiva e pensano che sia il luogo migliore, il posto da sempre agognato per la realizzazione delle proprie speranze (eu-topos). Gerardo Masuccio, ventinove anni, quest’anno ha fondato una casa editrice che si chiama proprio Utopia e custodisce all’interno del suo nome l’ambiguità di cui accennavamo: innanzitutto, era una realtà che non esisteva ancora, che non ha simili nel panorama editoriale italiano. Nello stesso tempo, però, nasce per essere quel “luogo migliore” dove i libri sono al centro di una particolare filosofia di lettura, sì, ma soprattutto di una particolare filosofia di vita.

Come nasce Utopia?

Dal punto di vista teorico, Utopia è un progetto che risale a molti anni fa. Anche se non corrispondeva a questo nome, a questo piano editoriale, a questa squadra di lavoro, l’idea di costituire una casa editrice risale alla mia adolescenza. Ho iniziato a studiare all’università già con questa prospettiva. Un progetto che è cresciuto con me, di fatto, sono più di dieci anni che ci penso. Concretamente, Utopia è nata alla fine di gennaio, a Milano.

Quali ruoli rivesti all’interno della casa editrice?

Sono il fondatore. Poi, nello specifico, mi occupo della parte della ricerca, dello scouting: vado alla ricerca di romanzi e saggi in Italia, in Europa e all’estero.

Quante persone lavorano al progetto?

Siamo in sette. Tutti nati negli anni Novanta, tutti con una certa esperienza nel mondo dell’editoria, ciascuno a titolo diverso. Quando abbiamo capito che c’erano le condizioni “ambientali” per creare progetti nuovi, ci siamo ricongiunti, ci siamo chiamati, e abbiamo cominciato insieme a lavorare su Utopia.

Qual era il vostro capitale di partenza?

Oggi è possibile aprire una S.r.l. con poche migliaia di euro. Il nostro capitale è nell’ordine delle decine di migliaia di euro ed è un capitale sostenuto - quindi non quantificabile nello specifico - da diversi evergeti che ci aiutano, e all’occorrenza sono disponibili a coprire delle spese. C’è un sostegno importante di questi benefattori, dicevo, e poi ci sono i nostri risparmi, i miei risparmi, che sono stati fondamentali per iniziare.

Quindi esiste davvero chi investe in progetti culturali.

Sì, l’editoria richiede degli investimenti importanti, e c’è chi con più esperienza, con più anni, ha voluto investire su di noi. Sono delle persone che lavorano in altri ambiti, ma hanno una certa sensibilità per la cultura. Nel mondo anglofono si parla di business angels, che non sono dei finanziatori, come può essere qualsiasi banca, che richiede un preciso interesse. Sono delle persone di successo, che amando i libri e la letteratura, e vedendosi presentare un progetto concreto, si sono prestate ad aiutarci.

Le sette persone che lavorano in casa editrice avranno un loro stipendio o stanno facendo anche loro un investimento in termini di lavoro?

In questo momento le nostre retribuzioni non sono allineate con quelle del settore. Sono molto più basse. È un momento in cui le entrate sono sporadiche, perché è un periodo di investimenti, di uscite. Quindi speriamo che nel giro di un anno e mezzo, due anni, ci possa essere una retribuzione per chi sta lavorando. Fermo restando che noi lavoriamo tutti anche, in parallelo, in attività simili. Per esempio, io faccio il consulente per la poesia in Bompiani. Il resto della mia giornata la dedico, invece, a seguire questo progetto, questa startup. Mi rendo conto che nel mondo dell’editoria non è frequente questo fenomeno, però in altri sì, specialmente quelli delle tecnologie nuove, delle nuove app: succede spesso che ragazzi che lavorano in contesti più strutturati nei margini del proprio lavoro ufficiale si dedichino a questi progetti crescenti, ambiziosi, che possono soppiantare la vecchia carriera e diventare preponderanti.

Hai definito Utopia una startup. Effettivamente è strano associare la parola startup a una casa editrice.

È una startup, sì, credo che sia una delle pochissime startup, nell’ultimo ventennio dell’editoria italiana, che parta già con una distribuzione nazionale. Perché i nostri libri sono distribuiti in tutte le librerie da Messaggerie. Il mese scorso abbiamo ringraziato tutti i librai perché i primi tre libri saranno veramente in tutte le librerie del Paese, e questo secondo me è essenziale. Perché è vero che ci sono tante piccole case editrici, però forse spesso lavorano come tipografie, cioè stampano libri con grande professionalità, a volte anche con lungimiranza, ma non riescono a immetterli nel mercato. Se essere è essere percepiti, in qualche modo è necessario che i prodotti arrivino all’utente, al fruitore, nei luoghi deputati all’acquisto. Almeno per i libri di qualità, le librerie sono indispensabili, più degli store online, più dell’e-book. I lettori forti vogliono leggerli quasi sempre su carta e vogliono comprarli in libreria. Quindi è essenziale che i nostri titoli siano disponibili sia nelle librerie di catena che in quelle indipendenti.

Qual è l’idea che anima Utopia?

L’idea è quella di concentrarsi soltanto sulla grande letteratura. Su una letteratura che non sia consumo puro e non si estingua in pochi mesi come succede a molto prodotti librari - non voglio chiamarli libri - che spesso la grande editoria veicola. Chi legge tanto, entrando in una libreria, ha un po’ un senso di spaesamento, perché c’è così tanto da leggere che non basterebbe una vita. Poi se uno impara ad allenare l’occhio si accorge che la maggior parte della carta stampata in una libreria non merita un’autentica lettura, sono dei libroidi che somigliano, che si vestono da libri ma non hanno niente a che fare con i libri veri. Sono oggetti di consumo, intrattenimento, divertissement. Che certamente hanno la propria dignità merceologica, ma non hanno nessuna dignità intellettuale.

Il 17 settembre in libreria arriveranno i vostri primi due titoli. Ce ne puoi parlare?

Iniziamo con due recuperi importanti del Novecento. Utopia ha superato la dicotomia storica tra letteratura italiana e letteratura straniera, e non soltanto perché chi cura queste collane è nato intorno agli anni di Maastricht. Noi faremo due collane, una di Letteratura europea e un’altra Letteratura straniera: capiterà, ad esempio, che uno scrittore di lingua italiana e uno scrittore di lingua francese convivano in una collana sola, e due scrittori di lingua spagnola siano ospitati da collane diverse.

Chi sono gli autori recuperati?

Due straordinari scrittori europei, Massimo Bontempelli e Camilo José Cela. Se possiamo pubblicarli è soprattutto grazie ai loro eredi, che si sono fidati di questo nostro progetto in divenire. Di Bontempelli proponiamo Gente nel tempo, il romanzo-manifesto del realismo magico italiano. E di Camilo José Cela, Premio Nobel nel 1989, pubblichiamo il suo capolavoro giovanile, La famiglia di Pascual Duarte, romanzo epistolare che ricorda il miglior Dostoevskij.

Da che cosa dovrebbe essere assicurato il futuro e il successo di una casa editrice?

Credo che il successo non sia prevedibile. Muovermi in questa attività economica non ha l’obbligo di un effettivo risultato. Noi lavoriamo nel migliore dei modi, con un’attenzione particolare alla ricerca, con un particolare interesse alla coerenza grafica di questi libri, con dei principi che sono una filosofia di vita e di lettura: siamo dei lettori che hanno ben chiara l’idea dei libri che meritano di essere letti.

Ed è questo che vi distingue all’interno del mondo editoriale?

L’editoria tradizionale è sul viale del tramonto, soprattutto dopo questo periodo di crisi. I grandi gruppi editoriali sono dei giganti, sono strutturati come delle aziende che si fondano sul principio dell’impiegatizio, e non danno più spazio agli intellettuali. Le case editrici non sono più locomotive di un sistema culturale, ma son dei vagoni semplici che seguono le tendenze, non le dettano più. È facile cadere in questo tranello perché il capitalismo non impone di orientare, ma spinge l’impresa a lasciarsi orientare dal mercato. Questo condanna l’editoria a sopravvivere senza identità: se un editore segue i propri lettori senza orientarli, senza conversare sul senso della letteratura, non ha più senso che faccia l’editore.

Immagine: TORINO, ITALIA - Studenti adolescenti cercano un libro in una libreria di Torino. Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

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