Spesso evocate in testi, giuridici e non, nazionali e internazionali, non si è mai arrivati a precisare esattamente i confini e i limiti di tale istituto. L’origine anglosassone non ci aiuta. Nell’ordinamento statunitense l’espressione ha una valenza piuttosto circoscritta. Negli Stati Uniti infatti, con l’espressione Green Community, si tende a definire spazi condivisi da più proprietari di abitazioni, per lo più contigue, che mettono in comune o comunque gestiscono congiuntamente un’area verde. Parliamo prevalentemente di cortili o terreni urbani non utilizzati o comunque tendenzialmente liberi da vincoli, che possiedono la sola caratteristica di trovarsi nelle vicinanze delle proprietà dei gestori. Lo scopo è quello di valorizzare gli stessi con interventi prioritariamente a carattere ambientale, in modo da aumentare il potenziale delle città riconvertendo o bonificando spazi in stato di abbandono e dunque destinati a inevitabile deterioramento. La condivisione di tali spazi ha inoltre una funzione sociale e di maggior controllo del territorio, disegnando una realtà spesso anche più gradita alla fauna urbana (primo caso codificato l’ordinanza Gating and Greening Alleys, Baltimora, Maryland 2007).
Nell’esperienza italiana il riferimento normativo più autorevole è costituito dalla legge 221/2015 (cosiddetto Collegato ambientale alla legge di stabilità 2016) nella quale è previsto che il Dipartimento per gli affari regionali, d’intesa con altri dicasteri, promuova la predisposizione della strategia nazionale delle Green Community. Nel disegnare la necessità di una strategia ad hoc il legislatore omette però di qualificare l’oggetto della stessa, specificando che questa deve essere diretta ai territori rurali e di montagna, che intendano sfruttare in modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono, tra cui in primo luogo acqua, boschi e paesaggio, compiendo così un ulteriore passo verso i soggetti attuatori, ma restando ben lontani da una definizione precisa. Ci si allontana tuttavia ulteriormente dal perimetro disegnato nella definizione anglosassone, si evoca infatti un campo d’azione molto più ampio e ambizioso anche se paradossalmente indefinito. È probabile che il più concreto progresso verso una definizione compiuta sia fornito dalla “mission” esposta dalla citata legge, ove si individua la possibilità di aprire un nuovo rapporto sussidiario e di scambio con le comunità urbane e metropolitane.
Evocare un tale rapporto con le realtà urbane e metropolitane introduce alla possibilità di una sorta di compensazione, eventualmente anche economica, a favore di comunità che hanno la responsabilità di sostenere e gestire beni i quali producono un valore aggiunto anche per i territori metropolitani. Considerando che in Italia i comuni montani sono circa il 40% del totale, si può ben intuire quale sia il possibile impatto dell’evocata strategia e quanto questa, soprattutto oggi, in tempo di post-Covid, possa rivelarsi importante per la ripartenza equilibrata delle diverse articolazioni del nostro sistema.
Ecco dunque che le Green Community si possono trasformare da strumento in politica, da una parte rinforzando i rapporti fra comuni montani e rurali, in vista della maggiore tutela e valorizzazione di beni di generale fruibilità, dall’altra favorendo un corretto scambio fra questi e le realtà produttive metropolitane, che dovranno e potranno contribuire anche economicamente, grazie alle maggiori ricchezze, allo sviluppo di territori altrimenti destinati ad impoverirsi e a spopolarsi. Si tratta di certificare un vero e proprio patto tra realtà rurali e metropolitane. Un piano di sviluppo sostenibile, attuato attraverso una strategia definita, che metta anche ordine fra tutti gli interventi, ad oggi insufficienti e scoordinati e provenienti da diverse amministrazioni, diretti a supportare le cosiddette zone svantaggiate, aggiungendo, a questi, ulteriori finanziamenti diretti a predisporre e realizzare progetti di valorizzazione e sviluppo dei territori montani.
A questo punto la politica delle Green Community non si dovrà limitare a coinvolgere solo, come inizialmente previsto, le ex comunità montane e i relativi enti locali, bensì si dovrà allargare fino a comprendere figure diverse, ivi comprese le autonomie funzionali, le università, i centri di ricerca ed anche soggetti privati, che potranno essere coinvolti attraverso diverse formule, dirette alla progettazione e alla sponsorizzazione, nella valorizzazione dei beni e nell’ottimizzazione delle risorse naturali, sempre ovviamente, nel rispetto dei vincoli ambientali. È questo un auspicabile e concreto sviluppo di quella Green Economy, troppo spesso evocata, ma mai compiutamente declinata e finanziata, a causa di una persistente e scellerata inversione di valori nella scala delle priorità. Su tali obiettivi e sulla capacità di perseguirli in maniera condivisa si misurerà la virtù del legislatore europeo e nazionale nella fase successiva alla pandemia.
* Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie, coordinatore dell’Ufficio per le politiche urbane e della montagna, la modernizzazione Istituzionale e l’attività internazionale delle autonomie regionali e locali