Se l’opera cinematografica e i documentari di Werner Herzog vi hanno appassionato, se siete da sempre affascinati dalla personalità stravagante di questo regista, o se, più semplicemente, amate il cinema, non potete assolutamente farvi sfuggire un volume pubblicato qualche mese fa:

Werner Herzog: A Guide for the Perplexed (Faber & Faber, 2014). Nella speranza di una pronta traduzione in italiano, per ora l'avvincente conversazione fra Herzog e Paul Cronin – il curatore del volume – è disponibile in inglese, e chiunque conosca la caratteristica pronuncia teutonica del regista bavarese non potrà fare a meno di leggere questo inglese immaginando di udire l’ipnotica cadenza di Herzog, e le parole scandite lentamente una ad una, senza per questo risultare monotone, ma al contrario, magnetiche e per sempre scolpite nella memoria dell’ascoltatore, proprio come succede con la voce narrante dei suoi documentari. Questa nuova edizione di Herzog on Herzog (Faber & Faber, 2002) esce, dopo più di dieci anni, arricchita da nuove conversazioni e testimonianze; Herzog ne ricontrolla ogni parola eliminando con cautela ogni forma di elucidazione o d’interpretazione esplicita della propria opera.  Infatti, ogni opera, secondo Herzog, dovrebbe raccontare una storia da sé, e qualsiasi spiegazione rischierebbe solo di sciupare, o peggio, porre limiti all’opera stessa.
Anche se in questo volume forse non troveranno risposte esplicite ai loro crucci critici, i lettori saranno accolti dalla sincerità di un Herzog che si offre volontariamente come guida, e lo fa con una carica d’involontaria ironia (involontaria perché è lui stesso a dichiarare di non aver mai capito cosa fosse l’ironia, ma di esserne spesso vittima, suo malgrado). Il tono è già evidente nell’epigrafe in apertura, nella quale Herzog dichiara: “Di fronte alla cruda scelta di vedere pubblicare un libro su di me composto da interviste polverose, distorsioni selvagge e menzogne, o di collaborare, scelgo l'opzione peggiore: di collaborare”. E da questa scelta in poi, Herzog dona al lettore riflessioni ben più profonde e immediate di quanto possa essere qualche disquisizione estetica professata da un artista acclamato, un ruolo che egli stesso ammette di rifuggire e ripudiare. Herzog si considera un artigiano, non un artista, proprio come quelli che erano chiamati scalpellini, e non scultori, e che lavoravano anonimamente nelle botteghe medievali e rinascimentali, regalando tuttavia all’umanità opere destinate a sopravviverci.
L’etica lavorativa di Herzog ha molto in comune con quella dell’artigiano che lotta con la materia, e con quella dell’atleta che combatte costantemente la fatica. Alla massima di Cronin “Per te fare film è atletica e non estetica”, Herzog risponde: “Chiunque faccia film deve essere, in un certo senso, un atleta. Il Cinema non scaturisce da astratte riflessioni accademiche, ma dalle ginocchia, dalle cosce, dall’essere disposti a lavorare venti ore al giorno”. E chi conosce le vicende legate alla quasi leggendaria produzione di un film come Fitzcarraldo (1982) che vede come protagonista l’iracondo Klaus Kinski accompagnato da Claudia Cardinale, sa bene che Herzog non è disposto a fermarsi davanti alle difficoltà, neppure alle disgrazie che coinvolgono la sua troupe. Per raccontare la storia di Fitzcarraldo, un visionario convinto che “chi sogna può muovere le montagne”, e che decide di trasportare una nave oltre una montagna in Amazzonia, Herzog rifiuta di servirsi di un modello, e sceglie di trasportare veramente una nave di centinaia di tonnellate oltre una montagna. “Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni […] Vivo o muoio con questo progetto”, dichiara Herzog con testardaggine e baldanza, e tra varie peripezie porta a termine questo film, forse il suo più celebre, che gli guadagnerà il premio per la miglior regia al Festival di Cannes.
Nello stesso spirito, per riuscire a raccontare le sue storie – ed è questo l’unico vero obiettivo di ogni cineasta – Herzog non esita a buttarsi in prima linea, ad esempio infilando i piedi fra i ratti quando tutti gli attori si rifiutano di girare questa scena, come accade in Nosferatu, il principe della notte (1979). Del resto, come un chimico che sottopone una lega di metallo a grandissimo calore e pressione per studiarne la composizione, Herzog crede che questa tecnica valga anche per gli esseri umani che, solo sotto pressione e nella difficoltà, rivelano la loro più profonda natura. In un certo senso, i protagonisti dei suoi documentari e i suoi attori sono sottoposti a simili tensioni che donano all’opera una maggiore autenticità e vitalità, o vibrancy, come la chiama Herzog. La lunga conversazione racchiusa in questo libro forse non accompagnerà per mano i perplessi, come promesso nel titolo, conducendoli verso risposte trasparenti, ma molto probabilmente incoraggerà nuovi dibattiti su questioni esistenziali scottanti e sulla loro rappresentazione nell’opera di Herzog, come il concetto di civiltà qui definita: “un sottile strato di ghiaccio che si estende sopra un profondo oceano di oscurità e di caos”. Ed è da questa stessa oscurità che scaturiscono tutti i personaggi che popolano i film e i documentari di Herzog, personaggi che “non hanno ombre, emergono dall’oscurità senza un passato, sono incompresi ed umiliati”. I lettori più astuti sapranno cogliere preziosi indizi da queste osservazioni, indizi che illumineranno il loro percorso interpretativo, come l’idea di Herzog di collocare tutti i suoi personaggi (immaginari e non) nella stessa grande famiglia: “Se ci si sedesse a guardare tutti i miei film uno dopo l’altro, tutto d’un fiato, si noterebbero i riferimenti incrociati, le parentele, le somiglianze fra tutti i miei personaggi”. Chi è pronto a raccogliere questa sfida?