Il collezionismo di oggetti extraeuropei è profondamente radicato nella storia dell’Europa moderna. Con la scoperta dell’America, la percezione e la rappresentazione di mondi lontani diviene un ingrediente fondamentale dell’idea stessa di modernità: il progetto di sfruttamento capitalistico delle risorse umane e naturali delle colonie si basava infatti sulla costruzione di un’umanità segnata da profonde differenze “razziali” e culturali. A questa costruzione contribuirono le testimonianze e le descrizioni di viaggiatori e missionari così come gli oggetti straordinari e stravaganti che iniziarono a giungere in Europa fin dal Rinascimento, trovando una collocazione nelle Wunderkammer dei nobili e dei prelati accanto a reperti naturalistici di varia natura, a strumenti scientifici e a opere d’arte. Estrapolati dai loro contesti di provenienza, questi oggetti acquisirono nuovi significati nell’ambito di pratiche collezionistiche che mutarono nel corso del tempo. Beni di prestigio, reperti archeologici, manufatti artistici, ma anche oggetti sacri ‒ definiti “idoli” e “feticci” ‒ vennero accumulati nei gabinetti di curiosità allo scopo di impressionare e suscitare meraviglia. Più tardi, con la nascita dei musei scientifici nel XIX secolo, gli oggetti esotici si trasformarono in reperti etnografici utilizzati per lo studio e la classificazione delle società e delle culture. Acquisiti sul terreno nel corso di spedizioni etnografiche oppure acquistati da viaggiatori, questi oggetti erano conservati ed esposti accanto a scheletri, mummie o altri resti umani di varia provenienza, anch’essi al centro di un massiccio collezionismo. Il loro status in questo contesto è quello di specimina atti a dimostrare le tesi evoluzionistiche che opponevano i “primitivi” ai “civilizzati”. Nello stesso periodo nelle principali metropoli europee furono organizzate esposizioni universali in cui esibire non solo manufatti, ma anche persone esposte alla curiosità del pubblico in quelli che sono stati definiti veri e propri “zoo umani”.
Nella seconda metà dell’Ottocento, quando il colonialismo giunge alla sua fase matura con la conquista del continente africano, al collezionismo etnologico si affianca la scoperta dell’arte “primitiva” che provoca un’ulteriore risemantizzazione degli oggetti extraeuropei e il progressivo sviluppo di un fiorente mercato. La capacità di adattamento delle società africane che si trovavano sulle rotte dei viaggiatori europei consentì loro di avviare precocemente la produzione di una proto-arte turistica in grado di soddisfare i desideri dei collezionisti. D’altro canto, è ben nota l’influenza dell’estetica extraeuropea sull’arte modernista europea e in particolare gli influssi “primitivisti” che colpirono tra gli altri pittori come Cézanne, Matisse, Gauguin, Derain e Picasso. In questa fase l’arte entra in dialogo con l’etnologia favorendo finalmente il riconoscimento del valore di produzioni estetiche estranee alla tradizione occidentale.
La storia dei rapporti tra l’Occidente e la produzione materiale extraeuropea è quindi complessa e variegata, e tuttavia resta incontestabilmente segnata dalla dimensione coloniale e dal sistema di relazioni asimmetriche su cui si basava. Molti degli oggetti conservati nei musei costituiscono dunque un’eredità scomoda con cui è divenuto urgente confrontarsi: le grandi istituzioni museali europee e nordamericane stanno tentando di affrontare questo problema, chi trasferendo le collezioni in nuovi edifici all’interno dei quali ripensare completamente gli impianti allestitivi, chi riorganizzando il discorso museale sulla base di complessi negoziati con le comunità migranti originarie dei luoghi da cui gli oggetti provengono. La presenza nelle metropoli occidentali di queste comunità costituisce infatti una sfida fondamentale per i musei, spinti a ripensare la loro identità anche in funzione di pubblici nuovi che esigono una rilettura e un ripensamento delle narrazioni museali. In questa situazione, gli oggetti venuti da lontano possono divenire ambasciatori delle loro culture nel mondo, consentendo alle comunità diasporiche di riconnettersi alla loro storia garantendone la visibilità.
La nuova definizione di museo approvata da ICOM (International Council of Museums) nell’agosto del 2022 sottolinea l’inclusività, la diversità e la partecipazione delle comunità in quanto elementi imprescindibili di qualunque istituzione museale. Nel suo codice etico, inoltre, ICOM incoraggia la condivisione delle conoscenze, della documentazione e delle collezioni con i musei e gli organismi culturali che hanno sede nei Paesi di origine delle collezioni stesse, anche attraverso l’istituzione di specifici accordi di partenariato. Sottolinea inoltre l’esigenza di restituire gli oggetti di cui è stata dimostrata l’esportazione illegale sulla base della violazione di trattati nazionali e internazionali, purché la legge lo consenta. I musei occidentali hanno a lungo manifestato grandi resistenze nei confronti di questo tema, ma una nuova era è iniziata con il discorso pronunciato da Emmanuel Macron all’Università di Ouagadougou il 28 novembre 2017. In questa occasione il presidente della Repubblica francese ha promesso l’avvio di un processo di restituzione di alcuni capolavori dell’arte africana conservati nei musei francesi. L’obiettivo non è soltanto quello di riconoscere la violenza culturale esercitata sulle società colonizzate, che sono state private di parti importanti del loro patrimonio. Si tratta più in generale di avviare una nuova etica relazionale in grado di sanare le ferite subite riguadagnando la fiducia delle comunità locali e di quelle diasporiche.
Per fare questo il museo postcoloniale deve adottare criteri di trasparenza nella ricostruzione delle biografie degli oggetti, delle circostanze di acquisizione, dei diversi significati che essi hanno assunto nei contesti di origine e nelle reti di relazioni all’interno delle quali sono stati scambiati e valorizzati. Criteri che la comunicazione digitale è in grado di garantire nelle forme più ampie. In questo modo, intorno agli oggetti sarà possibile sviluppare un dialogo e una collaborazione con le comunità di origine e con quelle della diaspora. I musei potranno così diventare “zone di contatto” in cui contrastare l’eurocentrismo della storia e della conoscenza insegnandoci a convivere nella diversità.
Immagine: Bandiera Asafo del popolo Fanti, 20° secolo. Crediti: Brooklyn Museum, New York
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