24 maggio 2023

I persiani. L’età dei Grandi Re, di Lloyd Llewellyn-Jones

 

Nel 1971 l’allora shah dell’Iran – come suo padre, tra i lazzi dei diplomatici, specialmente britannici, dell’epoca aveva preteso alcuni decenni prima che il suo Paese, un tempo noto come Persia, venisse chiamato – Mohammad Reza Pahlavi inscenò una mirabolante, oltremodo pacchiana, oltraggiosamente costosa cerimonia per le celebrazioni del supposto venticinquesimo centenario dalla fondazione dell’impero, di cui lui, nemmeno a dirlo (anche se detto lo fu, a gran voce e di fronte a stormi di dignitari e fotografi stranieri ma, forse non troppo curiosamente, assai pochi iraniani), si considerava l’erede. Il luogo scelto per ospitare l’evento – ridicolo nella sua patina arcaizzante ma imbevuto di tutti i lussi dell’Occidente, dai fiori olandesi al vino francese – fu il sito archeologico di Pasargade, sede della tomba del fondatore di quell’impero, Ciro II noto come il Grande. Reza Pahlavi aveva scritto il copione con notevole accortezza e in sovrano spregio di qualsiasi retroterra storico. Acme dello spettacolo fu una solenne preghiera recitata direttamente sulla soglia della tomba del grande re, culminante in un ambizioso «Riposa in pace, oh Ciro, perché noi qui siamo svegli e vegliamo». Otto anni dopo, Ruhollah Khomeini rientrava in patria (a bordo di un aereo Air France) accolto da un tripudio di folla nel mezzo di una rivoluzione, mentre l’erede di Ciro prendeva la via dell’esilio.

Reza Pahlavi non si era risparmiato nell’intento di fare di Ciro un simbolo dell’Iran quale moderna potenza imperiale. In questo progetto, la costruzione di una storia mitica nella quale il Paese e i volti più noti del suo passato occupavano – non di rado in maniera pretestuosa – un posto centrale giocava un ruolo di primo piano. Fu così che il celebre cilindro, tra le pochissime testimonianze coeve dell’ideologia regale appoggiata dal fondatore dell’impero, venne promosso ad antesignano della carta dei diritti umani e in quanto tale ancora figura – in copia – presso la sede newyorkese dell’ONU.

Nel 2009, nel contesto di elezioni violentemente contestate, il presidente Mahmud Ahmadinejad non si fece scrupolo di ridare fiato a questo conclamato falso storico nel mentre si dava da fare con alacrità per trasformare la figura di Ciro in una sorta di santo sciita, in claudicante ottemperanza ai dettami ideologici di un regime che, dopo aver ponderato a lungo una soluzione talebana al problema del suo passato preislamico (la nomina di Persepoli a patrimonio UNESCO fu dettata dal concreto timore di una sua imminente distruzione), scelse invece la via dell’accomodamento, costi quel che costi.

Nel 2016, una folla preoccupantemente numerosa si radunò ancora una volta intorno alla tomba di Pasargade: in un clima di sempre più ostentata mal sopportazione di un regime oppressivo e oscurantista, il passato (di cui Ciro rappresentava l’epitome) veniva riappropriato questa volta dalla società civile ai fini di una battaglia culturale e politica per la costruzione di un nuovo Paese. L’impennata presso gli uffici anagrafici di nomi platealmente non legati alla tradizione islamica – tra i quali spiccano Dario, Serse, Anahita e, ovviamente, Ciro – la dice lunga in merito alla potenza evocativa che la lunga storia degli antichi re di Persia (o del mondo, come essi stessi non di rado si definivano) ancora esercita su una società, quella della contemporanea repubblica islamica, giovanissima, mediamente assai istruita e che con sempre più audacia oggi proclama, in patria e all’estero, il suo desiderio di un futuro diverso.

 

Lo studio della storia rievocata – strumentalmente, per quanto con fini diversi – in ciascuna delle vignette di cui sopra è, per quanto sembri una banalità dirlo, precondizione indispensabile per capire come mai e in che modo essa faccia di nuovo capolino nel discorso contemporaneo. La storiografia achemenide, relativamente giovane come disciplina accademica dopo essere stata relegata per secoli nel limbo tra la fiorente assiriologia da un lato e gli studi classici dall’altro, è oggi un campo di studi florido e in costante espansione. Ciò che ancora manca è un’introduzione accessibile ma allo stesso tempo non platealmente tendenziosa che possa orientare il laico interessato.

Colmare questa lacuna è lo scopo che si prefigge Lloyd Llewellyn-Jones nel suo ultimo saggio, evocativamente intitolato I persiani. L’età dei Grandi Re. L’autore è uno studioso navigato, la cui competenza disciplinare non si limita alle sole fonti greche e latine ma abbraccia il mondo iranico ad ampio spettro e include una notevole dimestichezza con i metodi della storia comparata, della quale egli fa ampio uso nel corso di questa e di altre opere pubblicate in precedenza.

L’obiettivo del volume, particolarmente in virtù dello stato della documentazione di origine achemenide, è ambizioso: raccontare di nuovo la storia dell’impero dando prominenza a quella che Llewellyn-Jones definisce «la versione persiana». Detto in altri termini, si tratta di scavare al di sotto dei livelli di incrostazione stereotipizzante di autori come Senofonte, Tucidide, Curzio Rufo o Arriano per attingere ai quadri culturali persiani come punto di partenza per un’analisi storicamente più accurata. Il compito è improbo e le modalità dell’operazione, occorre notarlo, non sono nuove. Nella sua monumentale storia dell’impero persiano Da Ciro ad Alessandro (Histoire de l’Empire perse de Cyrus à Alexandre, 1998), Pierre Briant aveva già fatto sfoggio delle potenzialità di un’inchiesta condotta in virtù di questi parametri e da allora molto altro lavoro è stato portato avanti.

A contraddistinguere I persiani, tuttavia, è uno stile serrato e incalzante e un sincero, apertamente dichiarato amore per l’oggetto dello studio (fatto raro in un prosatore accademico), che ne fanno una lettura immediatamente accattivante anche se forse, soprattutto per un pubblico di specialisti, non sempre convincente. L’opera si divide in tre parti. La prima è dedicata alle complesse ed ancora oggi tutt’altro che interamente chiarite origini del fenomeno imperiale persiano. L’autore ha il merito, non comune nel quadro di una presentazione esplicitamente non concepita per gli addetti ai lavori, di riservare ampio spazio al contesto autoctono dell’Iran preachemenide (la veneranda cultura elamita) senza perdersi eccessivamente in fantasie nomadiche di sapore euroasista le quali, benché ormai da tempo in rotta tra le aule universitarie, sono ancora largamente popolari tra il grande pubblico, in Iran e non solo. La seconda parte, dall’allusivo e sofisticato titolo Diventare persiani, può essere concepita come una storia culturale dell’impero, al centro del quale spicca uno dei punti di forza della specializzazione dell’autore: il mondo della corte. La sezione finale riprende le fila della storia politica dalla morte di Serse all’invasione di Alessandro. Anche in questo caso il titolo dice tutto: L’alto impero – traduzione non proprio brillante dell’inglese High Empire, meglio reso forse come L’impero al suo Zenit, reca infatti le stimmate di una storia profondamente revisionista (per lo meno al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti). Anziché riprendere per l’ennesima volta le fila di un discorso antico che presenta l’impero all’indomani di Salamina come avviluppato in una inevitabile e teleologica spirale di decadenza, Llewellyn-Jones espone con dovizia di particolari le ragioni della straordinaria vitalità di un impero la cui caduta nel 330 a.C. fu, forse anche agli occhi del suo conquistatore, tanto clamorosa quanto inaspettata.

La scelta, non facilmente comprensibile e ancor meno commendabile, di privare il volume di note non facilita la vita a chi voglia sapere di più delle fonti citate dall’autore o di alcune interpretazioni audaci che nel corso della trattazione vengono a più riprese avanzate. Ciò detto, I persiani offre una benvenuta introduzione generale a un mondo che troppo a lungo è stato (e nella sua versione postmoderna continua ad essere: basti pensare a quel capolavoro di sciovinismo orientalista che è 300, con il relativo, incredibilmente persino peggiore seguito intitolato 300 - L’alba di un impero) giudicato alieno quando non strutturalmente ostile a tutto ciò che è nostro – e dunque giusto, buono e santo.

Le immagini che da ormai svariati mesi giungono da tutto l’Iran bastano a rendere ragione della tempestività dell’opera, appassionata e sincera nella sua partigianeria, di Lloyd Llewellyn-Jones.

 

Lloyd Llewellyn-Jones, I persiani. L’età dei Grandi Re, traduzione di Valerio Pietrangelo, Torino, Einaudi, 2023, pp. 472

 

Immagine: Bassorilievo raffigurante i soldati di Ciro il Grande a Persepoli, Shiraz, Iran (9 ottobre 2021). Crediti: Venus S / Shutterstock.com

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