24 gennaio 2018

Il batterio della peste del 1630 ritrovato nell’Archivio di Stato di Milano

«In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto»: ma era ormai troppo tardi. In questo modo Manzoni sintetizza, al termine del capitolo XXXI dei Promessi sposi, la lunga serie di negligenze, superstizioni, ottusità con cui per puro terrore vennero negate le evidenze del diffondersi del contagio e che espose Milano – ‘miracolosamente’ scampata all’epidemia del 1348 grazie all’avvedutezza di Luchino Visconti, ma poi colpita dalla terribile peste di San Carlo del 1576 – alla più grave pestilenza della sua storia: quella del 1630-31, che avrebbe ucciso in pochi mesi quasi la metà dei suoi circa 130.000 abitanti. Forse i milanesi con quel batterio assassino che li aveva colti del tutto impreparati in un momento difficile della loro storia non hanno mai veramente chiuso i conti, e forse è anche per questo che un gruppo di chimici del Politecnico, guidati da Pier Giorgio Righetti e coadiuvati da una società israeliana, la SpectroPhon, ha deciso di andarlo definitivamente a stanare.

I ricercatori hanno riesumato i registri dei decessi del Magistrato di Sanità (l’istituzione che aveva il compito di sorvegliare la salute pubblica, specialmente nelle epoche di pestilenza) conservati nell’Archivio di Stato milanese, in cui venivano annotati giorno dopo giorno i nomi delle vittime, l’età, la causa del decesso e il nome del medico o del barbitonsore (ossia il barbiere, una categoria che allora era in grado di praticare piccoli interventi chirurgici e che potremmo forse oggi definire ‘paramedica’) che l’aveva diagnosticata (vi si legge per esempio: «Presb. Galeatius Beccaria, ann. 45, febre acuta maligna, ex peste obijt, ind. Cascani fisici / Cath.a Bolla, ann. 9, obijt ex peste, ind. Moroni barbitonsoris» ecc.); hanno selezionato i registri risalenti all’estate del 1630, una delle fasi più acute dell’epidemia; hanno scelto le pagine più impregnate e sporche e, quindi, servendosi di una speciale tecnica (che utilizza tra l’altro il vinil acetato di etile), sono riusciti a individuare ed estrarre il materiale biologico sedimentato sulla carta.

La ricerca ha fornito numerose informazioni: non soltanto ha individuato 26 proteine della peste (Yersinia pestis), ma anche alcune di carbonchio o antrace (un'infezione potenzialmente mortale prodotta da un altro bacillo, che potrebbe essere considerata ulteriore causa di quella «febre acuta maligna» segnalata con insistenza dai barbieri), nonché proteine di topi, ovini, scarafaggi, parassiti, e di vegetali, come patate, carote, ceci, mais, riso e altro ancora. Ci viene restituita così, alla lettera, la ‘materia’ cruda di un lazzaretto lercio e stracolmo, con gli estensori dei registri che nel corso della loro triste attività consumavano poverissimi pasti vegetali, i cui avanzi nella notte richiamavano i topi, e dove in quella situazione eccezionale venivano lasciate circolare liberamente le capre, di norma come ogni altro animale non ammesse, per allattare i neonati rimasti orfani, esattamente come ci aveva raccontato Giuseppe Ripamonti in La peste di Milano (1640): «Le donne incinte abortivano, e i bambini che nascevano vivi, davansi da allattare alle capre, le quali, addestrate a codesto pietoso ufficio, vagavano pei prati del Lazzaretto, porgendo le poppe con amorevolezza quasi materna».

I risultati completi dello studio verranno pubblicati sul Journal of proteomics e forniranno informazioni più precise; e, al di là della indubitabile emozione che può suscitare tale genere di indagini, che ci mette ‘materialmente’ in contatto con eventi del passato tanto studiati e partecipati, sarà interessante scoprire quanto questo metodo di indagine potrà ampliare i metodi della ricerca storica e realmente approfondire le nostre conoscenze.