Esiste una violenza e una brutalità dello sguardo sul mondo, che si traduce in discorso e in azione sull’altro. L’occhio forma l’oggetto, lo forgia, lo persuade e chi è sedotto dal panopticon, ne diventa prigioniero e perde se stesso. L’oppresso è un sé deformato dallo sguardo-parola di chi lo domina: il persecutore diventa la sua casa e la sua patria ovvero l’unica possibilità di esistere. La realtà non sempre si può cambiare o almeno non rapidamente, ma Anna Maria Ortese ha insegnato a guardarla e a narrarla con la propria visione e il proprio linguaggio, anche se è un balbettio insignificante per gli altri. La scrittura è un atto di autodeterminazione, che segna il primo passo di emancipazione, proprio mentre demarca quella differenza distante, che nasce dalla distanza differente. Davanti al mondo, siamo soli; esiste, tuttavia, una solitudine necessaria, che nutre l’immaginazione in cui scriviamo la nostra possibilità di essere liberi, a patto che ne conserviamo il desiderio.

Il controcanto di Anna Maria Ortese si dispiega in Ocaña: l’isola della confusione, dell’opacità, dell’insignificanza, che si attraversa senza mappa o con una mappa sghemba, con scale dentro armadi e pozzi che conducono in alto. È un labirinto di immaginazioni, in cui conosciamo lo smarrimento. Perché perdersi? In questa isola diabolica censurata dalle carte geografiche, ci si perde per desiderare. Soltanto spostando l’asse percettivo, possiamo evolverci oltre frontiere del vivere, irrigidite in confini autolimitanti, e scoprire un nuovo avvio. Estrellita-Iguana insegna a desiderare la vita, perché è un “secolo crudele” quello che rende abituale la tensione al sopravvivere, come se “quel sopravvivere fosse tutto”[1]. Ci invita a questo sconfinamento non più un Ulisse conquistatore di luoghi e di regni, ma una Penelope tessitrice di visioni. Ferma in una terra estrema, con una zampetta fasciata e pietre al posto del telaio, disegna un ordito potente, con un’energia anfibia, tra ctonio ed acqueo, come una divinità madre delle origini, e l’ordito diventa una sorta di arabesco, che si avvolge e poi ci avvolge, spingendoci verso una postura, un’angolazione visiva, dall’esterno, che diventa sempre più fluttuante.

A partire dall’Iguana, si può tornare ad apprendere la lezione della souffrance, rimossa dal nostro secolo, nell’esorcismo del male fisico e morale, taciuto o subito dimenticato o ridotto a dati statistici e operazioni chirurgiche. La bellezza del patire si rivela esiliandosi nello sguardo interno, fragile e potente, che si libera precipitando in fondo ad un pozzo oscuro. La salvazione sta tutta nel resistere alla sottrazione di senso, nell’accettare la vertigine e nel lasciarsi cadere, anche nell’assurdo inquietante, che non concede la quiete della fine o il rifugio nel possesso con “l’acquisto” di un bene risolutivo. “Il mondo vuole essere visto”[2], ma occorre uno sguardo che desideri vedere e che sopporti l’opacità che disorienta, produce dispossessamento di sé e del reale, rende abitanti del nulla. Servono occhi che non vogliano solo capire/carpire per dominare, ma occhi che vogliano comprendere, cioè assumere in condivisione, attraverso un sentire pensante, che da una distanza differente torni alla matrice del mondo, solo per nutrire il suo divenire. Si paga il prezzo doloroso dell’esilio nel separarsi da ciò che si guarda, per sentire con amore ciò che chiede dolorosamente di essere visto, ma questo spazio sperimentale di incontro tra memoria, vita, immaginazione, permette di abitare l’invisibile e l’inaudito, rendendolo un’isola dell’altrove, da custodire nello sguardo, mentre si torna a camminare sulla terraferma, nella desertificazione dilagante dei continenti.

I titoli dei primi capitoli del romanzo L’Iguana indicano tre luoghi: via Manzoni, Ocaña, il pozzo. Creano una sequenza visiva a “cannocchiale rovesciato”, che dallo spazio urbano si estende verso la linea dell’orizzonte, in un luogo lontano e indefinito nelle carte, fino ad un piccolo elemento, un pozzo, attraverso il quale si può scendere nel sottosuolo. È un itinerarium mentis incorporato nello sguardo di Daddo che, dopo la passeggiata in via Manzoni, salpa a bordo della Luisa, poi si cala nella Luisina, in un climax discendente fino all’approdo, mentre “dietro di lui, come un muro eterno, andava chiudendosi il mare”[3]. Si procede verso l’infinitamente piccolo, l’atomizzazione dello sguardo, l’infinitesimale polarizzato. Il termine è il pozzo, dietro la casa, vicino alle “gibbosità di cetacei”, che ricordano la balena di Giona, ma si rivelano querce; intorno si affanna una figura misteriosa di “vecchia”, che ha intravisto prima di approdare. È un mondo che è e non è, appare e nega se stesso nello svelarsi: una decostruzione di forme e categorie, prospettive, aspettative.

Un pozzo è realmente esistito nell’infanzia di Ortese a Tripoli, ma ora riappare con elementi simbolici: le querce, il mare, le pecore, gli ulivi. La quercia, in particolare, nella Bibbia è un albero che significa sacralità e intorno ad essa accadono eventi decisivi. Presso Mamre, nell’ora più calda del giorno, Dio appare ad Abramo che siede sulla soglia della tenda in cui ha deciso di abitare, in attesa del giorno in cui avrà una terra; gli annuncia la nascita di Isacco, nonostante la sua tarda età e la sterilità della moglie Sara; sancisce il patto di alleanza e lo rinomina da Abram in Abraham, “padre della moltitudine”. Il riferimento alle querce è, dunque, un richiamo al nomadismo e alla temporaneità del vivere e, nello stesso tempo, all’incontro con la spiritualità, alla fratellanza che unisce gli uomini e alla speranza di una rigenerazione. Avvicinandosi ad esse e al pozzo, omphalòs del senso generante, Daddo scopre una creatura mutante: vecchia, bambina, donna, bestiola verdissima, in seguito lucertola, amante e scimmia, un tempo serpente e uccello.  Il raffio infranto, lo strumento a tre uncini per recuperare secchi perduti, e la zampetta fasciata, trasposizione del trauma della morte del fratello, sembrano alludere al punto di rottura, il momento in cui si rompe qualcosa nel vivere ordinario e ci si trova di fronte alla lacerazione nel nostro comprendere, che richiede trasformazione, come accade nell’essere proteiforme.

L’avvicinamento tra i due personaggi ricorda l’incontro al pozzo con la Samaritana, che compare tra gli Evangelisti solo in Giovanni[4]: Gesù interpella senza remore la donna, proprio come Daddo, vedendo che la creatura “si sforzava invano di tirare su dal pozzo un grosso secchio”, le si rivolge senza indugio: “senza perdere tempo a chiedersi, come avrebbe voluto la religione che egli professava, se quella creatura era cristiana o pagana (come più sembrava) si precipitò accanto alla bestia”[5]. Il passo giovanneo sottintende la conflittualità tra Giudea e Samaria, per cui attraversare questo territorio significa anche recarsi nel territorio dell’impurità. Dopo il rovesciamento dei tavoli dei Farisei, che suscita preoccupazioni e tensioni, Gesù, per tornare nella sua Galilea, sceglie non solo di percorrere questa terra ostile, ma di fermarsi per due giorni. Sicar è vicina a Sikam, che fa riconoscere fratelli, perché è il luogo della quercia di Abramo, e la prossimità prelude all’annuncio di una nuova spiritualità. La Samaritana e l’Iguana sono figure marginali rispetto alla collettività e adottano comportamenti diversi: si avvicinano al pozzo quando il sole è alto, nell’ora più insolita per la raccolta dell’acqua, perché le donne prediligono muoversi in gruppo, all’alba o al tramonto, con una temperatura più mite che riduca la fatica e con una compagnia che limiti i pericoli dell’isolamento. Il pozzo, nella tradizione, è spesso anche un luogo di incontro d’amore: Mosè vi vede Zippora; il servo di Abramo vi cerca la moglie per Isacco; Giacobbe vi incontra Rachele. Per questo la prossimità tra un uomo e la Samaritana, che ha avuto un elevato numero di mariti, è ancora più imbarazzante, ma Gesù non esita e, con un imperativo, le chiede acqua, perché ha sete. Nella richiesta c’è il bisogno, che fa esporre al rischio dell’incontro con l’altro, che può accogliere o respingere: nella tradizione Rebecca è generosa, mentre Gioele uccide. Cristo sitiens compare due volte in Giovanni e nella seconda è sulla croce. Alla fine del dialogo, la Samaritana lascia lì l’anfora e anche l’Iguana non porta via il suo secchio: l’acqua che disseta non è sulla superficie del mondo. Se le due creature sono marginali, lo è anche il contesto in cui si muovono: il pozzo di Giovanni è esterno e decentralizzato, come nel romanzo l’isola è periferica rispetto al Mediterraneo e la cisterna è fuori della casa.

Lo spazio ipogeo, tuttavia, in Ortese si moltiplica: la camera dell’Iguana è definita per la sua oscurità inquietante “il più segregato dei pozzi”[6] e successivamente sono i suoi stessi occhi a diventare così “grandi e splendenti, e calmi soprattutto, quasi l’intera luna, come in un pozzo, vi si specchiasse dentro”[7]. Il pozzo si radica all’interno dell’edificio e della comunità, per diramarsi negli spazi vitali interni dei personaggi. È l’attrazione del mondo del sottosuolo, ma, mentre gli altri vogliono purificarlo dal demoniaco, Daddo vuole conoscerlo. Quando si reca nel pollaio, scopre non tanto un’Iguana che tormenta i più deboli, come gli è stato detto, ma una giovane Estrellita felicemente dedita al gioco infantile della “Settimana”. Nel “pozzo” dei suoi occhi ritrova “una soavità che a Milano mai aveva visto negli occhi di qualcuno, e gliene veniva un sentimento pacato e grave del segreto dell’universo, di tutti gli abissi che ci circondano, e, molto probabilmente, della loro bontà”[8]. Il pozzo è, dunque, tenebra assoluta e segreta, che rivela la sua positività naturale, solo se ci si sporge e si scende fino al fondo, che è poi anche l’opaco della nostra anima. Non a caso nel Vangelo, Gesù, affaticato per il viaggio, sta sull’orlo, non vicino, davanti o di lato all’apertura: il verbo greco indica il possesso del luogo. Mentre l’uomo ha timore della profondità ignota, la evita e si tiene a distanza, Egli sta sull’orlo di una vertigine di morte e di vita vera, e lo possiede, lo riconosce come spazio epifanico.

Nel romanzo di Ortese l’incontro con l’abisso avviene con l’aiuto magico-sacrale dei raggi notturni e all’Iguana, ormai nel fondo, viene conferito il nome di Estrellita, insieme a quello di fanciulla-bestia. Dopo di lei, è Daddo-Mendes sul precipizio, come rivela il dialogo con Cole: “MENDES: C’era il Segovia, fino a pochi momenti fa, in corridoio. Non lo avete incontrato? Non è a bordo? COLE (meravigliato): Quale bordo, signore? Scostatevi dal pozzo. Potreste cadervi”[9].  La scena, è mutata, scrive Ortese ad apertura di capitolo, e il conte comprende che nulla tornerà come prima, perché in quell’abisso è l’Iguana. Ora il suo unico pensiero è liberare Dio dal sepolcro e restaurare il diritto, affrontando il processo per la sua morte, stando sul banco degli imputati. Mentre nei suoi occhi vi è un immenso deserto, vorrebbe tornare al pozzo, ma invece scende verso l’udienza, l’afasia e la mancanza di respiro. La brusca interruzione del patto narrativo è un risveglio anche del lettore. È un trovare se stessi dove non ci si aspetta: mentre viviamo un attimo, tutto è già trascorso e non siamo più chi eravamo. È una “tempesta”, che sconvolge e sovverte l’ordine dell’apparire, al punto che la voce narrante interviene rivolgendosi al Lettore, con una considerazione sui mutamenti e i “continui passaggi”, che appaiono “imperscrutabili” e senza “spiegazione”. La verità è solo dell’anima, in questo doppio cammino a cui siamo destinati: mentre “un giovane corpo cammina, è avviato in una certa direzione”, esiste un “ovunque, e in nessun luogo” verso cui “lo portano le nuove domande dell’animo suo”. Tempi e spazi cosa sono ‒ ci domanda questa voce narrante ‒ e che cos’è il corpo o un’isola o una città, se non il “teatro” degli interrogativi dell’anima? Il pozzo, come le nuvole, la tempesta, il bosco, le stanze, si confonde e ci confonde, perché non dobbiamo indagare la causa, ma riconoscere invece in tutto “il risoluto cammino, e solo vero, dell’anima” tra duplicati che sono finzioni, cloni che imitano e non eguagliano. La topografia ipogea è la discesa vertiginosa verso la malinconia, quel perdersi nella “struggente esigenza del reale” che fa precipitare paurosamente verso interrogativi senza risposta[10]. Il processo è la rievocazione degli inseguimenti, dell’assenza di respiro, delle pustole, che sono la peste che rendono Dio vittima. Dio non è dove e come vorremmo: ci sorprende apparendo “un così semplice essere, e così debole, e ormai cancellato dalla vita”[11]. È il “piccolo e segreto”, da cui ha origine lo “stesso immenso e allucinante universo”, che come noi deve sopportare “il lutto delle Costellazioni”, l’essere stati corpi celesti e averlo dimenticato separandosi.

Accade così l‘epifania di Dio tutta racchiusa nel balbettìo di “…altro…dunque…era qui…inutile…”[12], a cui segue uno “svenimento dell’anima”, che è lo stupore doloroso, a cui abbiamo rinunciato. La deposizione di Dio “Altissimo” è una foglia che accoglie una farfalla bianca o, meglio, un bruco con ali tremanti e “occhietti buoni, assai puri e tristi”[13]. La vita è, dunque, divino precipitare nella morte. Quando l’udienza riprende in uno spazio che appare alterato, spoglio e non più intensamente illuminato, sul banco degli imputati c’è un ragazzo alto, verde, con abiti anch’essi verdi e ricoperto di alghe: un’altra iguana da sacrificare. L’unico cambiamento è nel conte Daddo-Mendes, che ora sente di essere in cammino, proprio perché sta uscendo dalla società, che fino a quel momento aveva espresso acriticamente[14]. Si libera dando la vita per un altro essere vivente, pagando con la “moneta più vera”[15]. Così, mentre il processo prosegue, lui riprende il vero viaggio verso il pozzo tra abbaglianti fiori gialli in un campo: “non vedeva più il sentiero dove camminavano, e allora Felipe gridò, con una voce che gli parve di aver già udita: ‘Attento, signore! Potrebbe andar giù’. Ed egli, di colpo, la rivide. Non era una Iguana, e nemmeno una regina. Era una servetta come ce ne sono tante nelle isole, con due occhi fissi e grandi, in un volto non più grande di un chicco di riso”. Quella che appare è un’altra, la fanciulla dei “cenci grigi”, che sui cenci, sparsi su di lei come “petali di fango”, appare dormire sognante con “occhi aperti e fissi”: è Perdita, ciò verso cui si scende, mentre “l’acqua” della vita sale. Si scompare, ci si sottrae ad una forma riconosciuta, per diventare altro da sé. Lei torna come fanciulla e servetta, senza poteri magici, senza misteri, accudita con latte e vino caldo; torna nel quotidiano, con la banalità dei segni e con l’incomprensione che imprigiona; diventa l’ignoto, di cui una turista di passaggio può ipotizzare forme e significati disparati, con accumuli di parole, che descrivono senza sentire.

Lui appare in una “barca di quercia”[16], in elegante abito nero, con una rosa tra le mani e i piedi cosparsi di fiori gialli, con un libro e un crocefisso a fianco. È sepolto in una cappella di fronte al mare, dotata “di una finestrina”, da cui le onde marine possono osservare “il vuoto interno”, perché “essendo la bontà e la grazia cose non di questo mondo” non possono restarvi[17]. L’edificio ricorda la capanna costruita nella cucina di Ortese per una scrittura solitaria e concentrata; qui è la sua creatura che sta seduta all’esterno di un luogo vuoto, con uno specchietto in mano. Presenza e assenza, perdita e ritrovamento, morte e rigenerazione, come davanti ad un santo Sepolcro: questa è Iguana-Ortese, colei che si specchia nella sospensione, nel vuoto interno, ma crede in un altrove di giustizia. Esiste un segreto che non si deve svelare, ma si deve interrogare. Come per Unamuno, anche per l’uomo, eterno Don Chisciotte, non esiste nulla di più umano dello stupirsi e del porsi domande fino alla fine di ogni tempo.

Il finale stride con quella risata che sa di forte “patire” e di “inumana profondità del cuore”[18], ma è la leggerezza che nasce dal dolore, che insegna l’ironia, il guardare in altro modo. L’affannarsi, la senecana inquieta inertia, non può che suscitare il riso di chi sa. È così semplice la beatitudine. Occorre soltanto de-esistere, scendere nel pozzo e donare/donarsi la morte, come continuano a raccontare gli occhi della “ragazzetta”, che ha uno sguardo che è “un lago di luce nera”, che “non guarda te, guarda qualcosa, dietro di te, che non ritornerà”[19], forse proprio perché il morire è prima del vivere.

Questo è dunque il romanzo che non si può raccontare, perché è il romanzo del niente, del pozzo nero in cui dobbiamo scendere, dello svuotarsi oscuro, da cui l’amore genera forme. È una scrittura che si può solo attraversare con la propria anima, il dolore delle decisioni, il coraggio dello sguardo verso l’Altro, che è un rischio e che paga con il nulla. Sedersi sull’orlo del pozzo significa assumersi questa responsabilità del vivere, che è perdita ed abisso, cioè amore misericordioso. Anche in Cristo e il tempo, Ortese spiega l’episodio della Samaritana come necessità di scelta, seguendo un Cristo che è disconoscimento dell’ordine del mondo e risveglio. Nei testi neotestamentari la nozione materia è marginale, ma esiste una disseminazione di scarti, “un’attenzione persino ossessiva per il resto e per l’abietto”, “come se proprio la materia più vile, repellente, informe fosse in grado di avvicinarsi maggiormente alla privazione e al vuoto di ogni forma, al luogo indeterminato, “senza perché”, “illogico”, nel quale si nasconde il segreto fragilissimo, anzi impalpabile della matrice di tutte le realtà”[20]. È il luogo teofanico per eccellenza, in cui Dio dona tutto di sé, incarnandosi. Nella Storia lausiaca di Palladio (V sec. a.C.) una “serva innominata e disprezzata, chiamata dalle sue consorelle Σαλή, Pazza o Idiota” è figura di Cristo. L’immagine della reietta, umiliata ed esiliata, addetta a funzioni servili, con i capelli raccolti in una fascia, ha straordinarie analogie con l’Iguana-Ortese, e proprio in questi abissi di anime, divenuti luoghi del niente, si verifica la catastrofe ontologica. La realtà materica si può cogliere solo nelle sue metamorfosi, nel suo differire, rinviare ad altro; interessa ciò a cui cede il posto, l’altro che si epifanizza nel vuoto della negazione materica, nella morte di ciò che precede: “La materia non c’è, si sottrae, eppure, nel suo negarsi, avviene l’evento di grazia: la creatura è, in sé, questo misericordioso gioco di sottrazione e donazione. Dal nulla, Dio la crea gratis per poi toglierla in sé e trasfigurarla, materializzandosi”[21]. Questo chiarisce come sull’orlo di un pozzo, l’Iguana possa scomparire e ritornare, come Daddo muoia ma resti atteso il suo ritorno, e Cristo, ucciso in terra, si renda visibile in tre farfalle bianche che invitano al risveglio le anime[22].

Nel racconto In carcere, la voce narrante ricorda di essere stata condotta nel luogo di reclusione da bambina, bendata, di notte. All’interno di “quella specie di pozzo”, esiste un vero pozzo al centro del cortile: è una discesa in cisterne ed acque di natura diversa, che rappresentano impossibilità o possibilità, esclusioni ed inclusioni. Su quell’orlo, concedendosi momenti di pausa e calmando i battiti del cuore, curva su “acque senza espressione” in una “profondità non accertata”, la bambina si diverte a chiamare il suo nome[23]. A lei che si definisce un “animale torturato”, dopo otto anni, vengono dati dei libri “filosofici e ascetici” che la redimano e la avvicinino a Dio, allontanandola da una Natura-Bestia, considerata pericolosa. Inizia a scrivere scrupolosamente le sue annotazioni prima in un quaderno a quadretti e, quando questo finisce, continua ad annotare segni sui muri, una parete dopo l’altra. Ricopre muri con lo sguardo dei sogni e poi con la scrittura di animale-donna, che disegna il discorso sulla vita, appreso da altri, su barriere di carcere, fino a sconfinare, perché quella recita quotidiana sull’orlo del pozzo “con un tono sicuro e tuttavia lamentevole” si dissolve, chiudendo libri e restando sul limen ipogeo, “lagrimando di speranza e di gioia”[24]. Una sera di primavera si genuflette, mentre la benedizione dei raggi lunari “cadevano sull’orlo del pozzo, e sulle mie mani”. A sottoporla a giudizio sono dodici giudici (le dodici stelle di Maria), preceduti da una signora di nome Jane (che nel suo cuore vuol dire “ribellione”), dotata di una bellezza pallida e splendente “come la luce spirituale del mare”, che sta “seduta sull’orlo del pozzo”[25]. Con un bacio mistico la bambina vive la caduta vertiginosa nel mare e nella confusione di sé “con gli elementi celesti, al di là di ogni regola, grazia, memoria”; quando riemerge, la sua condanna è la libertà di “un interminato morire”[26]. La sua vita è un deserto spaventoso, in mezzo al quale però fiorisce una rosa, che è destinata a non finire mai, ad essere paradiso in mezzo all’inferno, ricordo di ibridazioni con “mare vento natura fiori notti di luna”[27]. Una rosa appare anche nell’Iguana sul corpo di Daddo dopo la discesa nel pozzo: è la vita autentica, quella che muore per non morire e che vale la pena vivere, anche se è inferno e paradiso, anche se non la comprendiamo.

In Carcere, tutti restano sull’orlo, interrogandosi sul mistero sacro del vivere e dividendosi tra chi è la Legge e chi invece rappresenta il Disordine; nel suo percorso sotterraneo di discese e di risalite come battesimi di coscienza, il pozzo dell’Iguana si distingue per una sua maturità e intensità di visione. Nel fondo, tra i riflessi dell’acqua, ci lascia scorgere il volto del mistero del vivere: “Non era una Iguana, e nemmeno una regina. Era una servetta come ce ne sono tante nelle isole, con due occhi fissi e grandi, in un volto non più grande di un chicco di riso”[28]. Il mistero non è più grande di un chicco di riso e si rivela sotto forma di farfalla. È una memoria dell’infanzia a Tripoli, rievocata nell’articolo Il secolo della crudeltà, quando si accorge una sera che in una conca su un tavolo di marmo sta morendo “una di quelle farfalle color seta cruda, piccolissime, quanto un chicco di riso”[29]. Quel “chicco di riso”, Iguana-farfalla, è rianimato con una goccia di vino, come se fosse un’ostia durante la liturgia, e gradualmente si ingrandisce e apre gli occhi, dilata il corpo, cammina, dispiega le ali. Aumenta le dimensioni fino a dileguarsi, mentre l’acqua resta chiara e immobile dentro il catino.

Sono gli elementi di un processo di liberazione attraverso la rigenerazione metamorfica, che inizia dalla caduta cristologica nella morte oscura. Eppure Ortese non era cristiana, ma si può essere attraversati inconsapevolmente da figurazioni, che plasmano sguardi con traiettorie scopiche tangenti e scardinanti, da “occhi obliqui”[30], come quelli di Cristo: “Non so se posso dirmi cristiana, ma temo di credere in Cristo, e nella sua rivelazione, come nella presa di coscienza della storia stessa. Senza Cristo, e quindi definizione del mondo come anti-mondo, anti-realtà, anti-vita, non vi è storia, ma inganno di ciechi fatti. Un’ipotesi, Cristo, c’illumina sulla realtà del mondo: una caduta. Da dove, è insensato chiedere. […] Risalire è arduo, non forse impossibile. Urge, tuttavia, un continuo ripensamento del mondo: come innegabile caduta: di tutti, anche gli innocenti, e perciò una impossibilità di giudizio. Ciò che resta è la valutazione di un’ombra, in cui siamo tutti, per nascita; e il tentativo di uscirne; operando, appunto, nel senso contrario a quello in cui operano le ombre, che oscurano il mondo”[31]. Il residuo di reale, lo scarto al margine, l’ombra negata è il punto da cui dis-nascere. Scarto è separazione prodotta, ma si traduce in inferiorità e paralisi, se non è considerato una de-coincidenza, lo spazio da cui uscire come da una prigione. In primo luogo occorre operare in se stessi lo spostamento, perché limitarsi a rappresentare nella mente concezioni fantasiose distaccandosi e isolandosi significa solo ideare opposizioni o evasioni, non nascere ed evolvere. L’immaginazione può aprirsi solo dopo un dislocamento o una disgiunzione: è un atto di reazione. Si deve innescare un processo di riappropriazione della marginalizzazione, rendendola un sistematico, nomadico, inafferrabile deviare verso un punto sempre più disatteso ed esterno. La devianza di scarto apre fessure in un sistema chiuso, crea crepe nell’uovo primigenio, ma la lacerazione è possibile solo nella presenza in atto nel mondo, non nel chiuso di una dimensione fantasiosa isolata. Non basta il dubbio. Occorre la deriva totale, quella che non fa scorgere riva su cui approdare. La rottura maggiore, poi, è prodotta non dallo straordinario, che si configurerebbe come eccezione alla norma, ma dal non integrato. Trovare la fessura di un inespresso, di un insondato tra le quadrature incasellanti di una mappatura già tracciata, certamente disorienta e fa precipitare in una vertigine spaventosa, quasi allucinatoria. Si verifica un debordamento pericoloso come nel romanzo L’Iguana: la sponda di una nave, che dovrebbe portare in salvo lontano, diventa l’orlo di un pozzo, in cui si può morire. Disporsi verso l’inaudito significa voler precipitare verso la sospensione nell’attesa, arte difficilissima che passa attraverso il silenzio e la solitudine. Significa anche coraggio di accettare il rischio, a volte totale, fatale. Guardare l’altro significa vedere i suoi occhi come un pozzo oscuro in cui precipitare, senza la certezza dell’acqua. Così ricordano i versi finali dell’Iguana: vieni, non c’è acqua nel pozzo, ma se ci chiami, rispondiamo. Ordinariamente ci si limita a sfiorare lo sguardo altrui, perché è un abisso in cui non si può più vedere se stessi, ma si entra nel differente. Non è specchio rassicurante, non è Self confermativo. È l’interrogativo della caduta di cui ci si deve poi far carico, turbamento ulteriore. Questo solo per Ortese significò guardare: restituire l’altro a se stesso, lasciare che fosse visto. Per questo, disse che “pensare è terribile: è come affacciarsi ad un pozzo dove non si vede più niente. Invece in superficie, tutto è lieto, risponde”[32].

[1] A.M. Ortese,  Le Piccole Persone, Milano, Adelphi, 2016, p. 37.

[2] G. Bachelard, Il diritto di sognare, Dedalo, Bari, 1975, p. 12.

[3]A.M. Ortese, Romanzi, vol. II, Adelphi, Milano, 2005, p. 19.

[4] Per approfondimenti J. Zumstein_, Il Vangelo secondo Giovanni_, Claudiana, Torino, 2017, pp. 187-221; G. Lettieri_, Il corpo di Dio. La mistica erotica del Cantico dei Cantici dal Vangelo di Giovanni ad Agostino_, in R.E. Guglielmetti (a cura di), Atti del Convegno Internazionale degli Studi di Milano e di S.I.S.M.E.L, 5/2006, pp. 9-11.

[5] A.M. Ortese, cit., pp. 23-24.

[6] A.M. Ortese, cit., p. 27.

[7]A.M. Ortese, cit. p. 76.

[8] A.M. Ortese, Ibidem.

[9] A.M. Ortese_, cit._, p. 163.

[10] A.M. Ortese, cit., pp. 169-170.

[11] A.M. Ortese, cit., pp. 173-174.

[12] Ibidem.

[13] A.M. Ortese, cit., p. 173.

[14] A.M. Ortese, cit., p. 178.

[15] A.M. Ortese, cit., p. 179.

[16] Ibidem.

[17] A.M. Ortese, cit., p. 187.

[18] Ibidem.

[19] A.M. Ortese, cit., p. 188.

[20] Ibidem.

[21] G. Lettieri, Materia mistica. Spirito, corpi, segni nei cristianesimi delle origini, Milano, Mondadori, 2017, p. 42.

[22] A.M. Ortese, cit., p. 175.

[23] A.M. Ortese, L’alone grigio, Vallecchi Editore, Firenze, 1969, p. 108.

[24] A.M. Ortese, ivi, p. 114.

[25] A.M. Ortese, L’alone grigio, p. 108.

[26] A.M. Ortese, ivi, p. 119.

[27] A.M. Ortese, ivi, p. 120.

[28] A.M. Ortese, Romanzi, cit., p. 181.

[29] A.M. Ortese, Le Piccole persone, cit. , p. 81.

[30] A.M. Ortese, L’infanta sepolta, Milano-Sera, Milano, 1950.

[31] A.M. Ortese, Le Piccole Persone, cit., pp. 134-135.

[32] L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano, 2002, pp. 411-412.

Crediti immagine: Riderfoot / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#vangelo#Gesù#pozzo#personaggi