Il Genesi, dunque in un certo senso la storia dell’umanità, si apre (cap. 4) con una parabola di frustrazione, gelosia e invidia che culmina in un omicidio nonché in un tentativo, per altro piuttosto maldestro visto l’inquirente, di occultamento di cadavere. Ugualmente, la storia del capitalismo, ma si potrebbe dire, in ultima analisi, di quella che chiamiamo civiltà – il cui Genesi si rinviene solitamente nella famosa rivoluzione neolitica – prende le mosse dalla violenza coercitiva e dallo sfruttamento. Nella sua, memorabile, genesi dell’accumulazione originaria, un all’epoca pressoché ignoto filosofo di nome Karl Marx si prese la briga (e di certo il gusto) non tanto, come diceva De André, «di dare a tutte il consiglio giusto», ma di smascherare l’autorappresentazione agiografica della nascita del sistema economico e sociale in voga ai suoi tempi quale l’avevano concepita i sacerdoti dell’economia politica moderna, da Adam Smith a Ricardo. Al posto del libero e creativo competere, a parità di condizioni, di individui razionali e creativi, Marx sostituì la storia delle enclosures durante il XVI e il XVII secolo, in una galleria ininterrotta di espropri e rapine legalizzate le quali posero fine a un determinato ordine sociale manu militari a beneficio di un ben definito gruppo di potere (il quale con il tempo, nemmeno troppo per altro, si sarebbe trasformato in – un conglomerato di – classi sociali) che in mancanza di tale modus operandi assai difficilmente avrebbe potuto acquisire la posizione di potere di cui si ritrovò beneficiario alla fine del suddetto processo, quest’ultima a sua volta un elemento indispensabile, forse la colonna portante, di quel lungo percorso divenuto celebre come «l’ascesa dell’Occidente».

Al di là dell’Atlantico, lo sbarco quasi picaresco di una squadriglia di avventurieri al verde innescò una seconda, biblica nelle proporzioni e nel significato, storia di espropri e violenze da cui derivò, tra l’altro, un flusso inaudito di metalli preziosi verso la Spagna e da lì in tutto il resto del globo, alimentando in maniera decisiva una panoplia di dinamiche che avrebbero trasformato la storia umana fino al punto da renderla pressoché irriconoscibile se confrontata a quanto l’aveva preceduta solo pochi decenni prima. Non senza una buona dose di paradosso, i costi di questi mutamenti radicali (alcuni anni fa efficacemente riassunti da uno storico tedesco nella formula dell’«assoggettamento del mondo») spinsero alcuni – pochi – a interrogarsi, se non sulla natura proficua, indubbia, dei processi in corso, per lo meno sulla loro decenza. Il più famoso di costoro, il domenicano Bartolomé de Las Casas, dopo lungo tormento, travagliata riflessione e una Brevísima relación de la destrucción de las Indias la cui magnitudo, in senso letterale e metaforico, non fu possibile ignorare benché da più parti ciò fosse ampiamente auspicato, ebbe l’idea geniale di porre un freno allo sterminio delle popolazioni native (non da ultimo, si noti, nell’intento di preservare il mondo che stava prendendo forma nella Nuova Spagna, la cui esistenza veniva non solo data per assodata, ma anzi ritenuta meritoria) per mezzo dell’afflusso nel continente ormai spopolato di un vero e proprio esercito industriale di riserva. Aveva così inizio la tratta degli schiavi africani, che sarebbe durata trecento anni e avrebbe, tra l’altro, posto le basi per l’avvento dell’economia capitalista negli Stati Uniti d’America: la pietra d’angolo per la nascita del primo impero antimperialista della storia, in compagnia del quale, spesso nella serena – e interessata – ignoranza dei suoi massimi rappresentanti, viviamo tutt’oggi.

Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, di Robin Blackburn, è un saggio monumentale, un coraggioso riesame della storia e una temeraria sfida alla politica di oggi e soprattutto di domani, che in quattordici capitoli articolati in quattro parti per un totale di quasi seicento pagine ripercorre, su una scala transcontinentale e in un’ottica olistica che sola permette di comprendere a pieno le «cause profonde» di fenomeni che se studiati singolarmente rimangono, alla fine, ridotti a dato di cronaca e dunque inspiegabili, la storia della schiavitù e della lotta per l’emancipazione che essa generò, da Cuba al Brasile, dall’Inghilterra fino alla Francia rivoluzionaria, alla guerra di secessione americana e ai movimenti di decolonizzazione, in questo modo riscrivendo, da una prospettiva – è il caso di dirlo – rivoluzionaria e con risultati assai meno edificanti di quelli ai quali una lunga tradizione retorica ci ha assuefatti, quella che lo storico Christopher Bayly ha definito in un libro che ha fatto epoca La nascita del mondo moderno.

Le piantagioni americane (a nord come a sud, senza dimenticare i Caraibi, dove si produssero i sistemi sociali più oppressivi e diseguali della storia da quando esistono dati) lavorate da quegli schiavi la cui importazione las Casas aveva così calorosamente perorato furono al contempo un sottoprodotto e un volano del capitalismo e del colonialismo europei ed americani. Lo sviluppo del primo nell’Europa nordoccidentale, nota l’autore, stimolò la domanda di prodotti voluttuari (zucchero, tabacco, caffè, cioccolato) che le piantagioni suddette potevano soddisfare a prezzi competitivi e con guadagni, per i proprietari, si intende, esorbitanti: nessuno aveva ancora mai sentito parlare di plusvalore, ma le strategie sottostanti al suo furto da parte di una classe sociale ai danni di un’altra erano già perfettamente oliate, e nel tempo (oggi tutt’altro che conclusosi) si sarebbero solo raffinate. I sistemi di assoggettamento intrinseci a un modo di produzione siffatto riflettevano disparate, ma tra loro coerenti e mutualmente rinforzantesi, nozioni protorazziste, che divennero sempre più centrali, sofisticate e violente a mano a mano che quei sistemi si espandevano, dal momento che ad essi fornivano, tra l’altro, una potentissima giustificazione. Nel secolo e mezzo che seguì, la tratta atlantica e il sistema schiavista garantirono ai primi «capitani coraggiosi» credito, materie prime e mercati. Ugualmente, nel lungo secolo dell’abolizionismo, analogamente alla Brevísima relación un sottoprodotto di un sistema che fioriva ad ogni luna nuova sempre più rigoglioso, i provvedimenti di emancipazione contribuirono a conferire nuovo carattere e nuova direzione all’ondata di edificazioni nazionali caratteristiche del 1800 (un altro mito fondante dell’Occidente), sulla scorta dello scontro tra le oligarchie mercantilistiche atlantiche, spesso proprietarie di schiavi, e il rampante processo di industrializzazione, che il sistema delle piantagioni aveva generato ma che, come l’apprendista stregone di Dukas, non era più in grado di controllare.

Alla fine, il potere dei grandi proprietari terrieri fu spezzato, ma venne prontamente sostituito dal dominio di banche ed affaristi. La schiavitù non sarebbe più tornata nelle forme in cui aveva prosperato ad Haiti (non da ultimo in virtù della tenacia degli schiavi, il cui contributo alla lotta per l’emancipazione propria e, per riflesso nelle madrepatrie, altrui, si tende ancora adesso a sminuire a tutto vantaggio dell’oleografia illuminista), ma le società che seguirono all’emancipazione, in primo luogo nel profondo Sud americano, sarebbero rimaste razzialmente stratificate ed oppressive, contribuendo a innescare nuove dinamiche il cui risultato, all’alba del XXI secolo, fu che il divario tra ricchi e poveri era circa cinquanta volte maggiore rispetto a due secoli prima, e se nel 1860 nelle due Americhe vi erano all’incirca sei milioni di schiavi, il trionfo di quello che Jefferson aveva definito «l’impero della libertà» (e della sua ideologia ancillare, l’economia liberale di mercato) aveva raddoppiato, dieci anni dopo il muro di Berlino, il numero dei lavoratori soggetti a coercizione: i dati contenuti nei saggi di Piketty, tra gli altri, sono lì a dimostrare che la situazione attuale è se possibile ancora più tetra, e procede a passi lunghi e ben distesi verso contraddizioni ancora più grottesche.

Se ne deduce, conclude Blackburn (p. 588), che la storia dello schiavismo e dell’abolizione non indirizza certo verso conclusioni fatalistiche, né tantomeno facilmente assolutorie. In ogni fase di questa vicenda vi sono state alternative, il che implica che ve ne siano ancora, nel bene come nel male. Il capitalismo atlantico conobbe il proprio slancio globale perché si appropriò di giovani africani e di terre fertili sulle ali di un connubio velenoso (e per più versi letale) di fanatismo religioso, avidità e razzismo virulento, una triade per altro con una sinistra tendenza al mutuo sostentamento. I sistemi schiavisti che ne risultarono, tuttavia, nella loro convenienza si rivelarono anche vulnerabili alle lotte di classe che collegarono le piantagioni alle zone industriali oltreoceano che da quel sistematico processo di sfruttamento traevano la propria linfa vitale. Ne consegue che il retaggio delle lotte contro lo schiavismo rimane esso stesso una risorsa nella lotta contro nuove oppressioni e distruzioni, di cui il cosiddetto late stage capitalism si sta rivelando virtuoso cultore. Contrariamente a quanto sostenuto da una certa corrente di pensiero radicaleggiante (Žižek, per esempio), il punto non è prendere confidenza con questa eredità nello spirito, al tramonto di ogni ideologia, di una nuova storia sacra alla ricerca di santi (e demoni) o con l’obiettivo di monumentalizzare il passato; né l’ambizione delle lotte del nostro tempo deve essere massimalista (o, peggio, minimalista), bensì, semplicemente, adeguata alla portata dei problemi che l’umanità oggi deve affrontare.

Robin Blackburn, Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, Einaudi, Torino, 2021, pp. 661

Immagine: La schiavitù in Africa, da Journal des Voyage (1880-81). Crediti: Morphart Creation / Shutterstock.com

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