Una scienza senza più geni? Sembra una contraddizione in termini, ma è un'idea a cui dovremo abituarci, secondo un commento scritto sulla rivista Nature da Dean Simonthon, uno psicologo californiano che ha passato tutta la carriera a studiare proprio la creatività scientifica e le personalità di inventori e ricercatori. 
Per il grande pubblico, la figura dello scienziato è associata soprattutto a figure come Albert Einstein, Charles Darwin, Galileo: quelli capaci di rivoltare come un calzino discipline già esistenti (è il caso di Darwin o di Einstein, che rifondarono letteralmente la biologia e la fisica rispettivamente) o di crearne di nuove (l'astronomia telescopica nel caso di Galileo). Anche senza arrivare a quelle vette, la storia della scienza è stata costellata dei contributi di scienziati e innovatori che hanno portato in dote idee originali, utili e sorprendenti: i tre requisiti fondamentali del lavoro del genio. Newton, Faraday, Maxwell, Marie Curie, Enrico Fermi...e la lista potrebbe proseguire, includendo molti dei premi Nobel almeno della prima metà del secolo scorso. Ci aspettiamo che siano figure come quelle a mandare avanti la scienza. Ma nella scienza odierna, secondo Simonthon (e non è certo il primo ad accorgersene) per figure di questo tipo c'è sempre meno spazio. Non perché manchino individui abbastanza dotati, ma perché la creazione di discipline interamente nuove è ormai impossibile. La scienza ha sviluppato ormai strumenti di analisi che le consentono di indagare materia, energia e fenomeni biologici fino a un raffinatissimo livello di dettaglio. É molto difficile pensare che questi strumenti si siano lasciati scappare qualche fenomeno fondamentale che meriti una disciplina a sé accanto a chimica, astronomia, fisica e biologia. Dopotutto, per oltre un secolo le nuove discipline non sono state altro che incroci fra queste (si pensi ad astrofisica, biochimica, astrobiologia...). Da qui in poi, i grandi progressi scientifici saranno progressi incrementali, più che creazione di nuovi ambiti. Un esempio da manuale ce lo dà il più grande breakthrough scientifico degli ultimi anni, la scoperta del bosone di Higgs, che lo scorso anno ha coronato un lavoro teorico e sperimentale durato quasi 50 anni. Altro che serendipity, insomma.
Altro problema è la figura stessa dello scienziato. Il lavoro in solitaria praticamente non esiste più. Tanto le scienze fisiche quanto quelle biologiche sono ormai così complesse e specializzate che il lavoro viene fatto da grandi collaborazioni, sempre più simili a piccole (o grandi) aziende.
I grandi protagonisti della scienza (ancora una volta, pensiamo ai responsabili degli esperimenti che hanno trovato il bosone di Higgs, come la nostra Fabiola Gianotti) sono sempre più simili a manager, o se vogliamo a direttori d'orchestra più che a grandi solisti.
Questo non vuol dire, chiarisce Simonthon, che il progresso scientifico sia destinato a rallentare. Nella peggiore delle ipotesi, alcune discipline si avvicineranno sempre più a un limite ideale di precisione e completezza, vivendo un po' quello che sta succedendo in molti sport, dove i record continuano a migliorare ma per scarti sempre più piccoli, avvicinandosi asintoticamente a un limite ideale. Il che non toglie che gli atleti continuino a vincere medaglie d'oro alle Olimpiadi. Allo stesso modo gli scienziati continueranno a vincere premi Nobel per i loro contributi al completamento di teorie sempre più raffinate.
Né bisogna pensare che gli scienziati di oggi siano meno intelligenti di quelli di un tempo. Al contrario. Per emergere devono vedersela con un ambiente molto più competitivo di quello che si trovavano di fronte Einstein o Darwin che lavoravano in discipline per molti versi ancora pionieristiche. Devono padroneggiare un corpus di conoscenze molto più articolato e complesso, e strumenti concettuali che forse gli stessi grandi geni del passato avrebbero faticato a capire. Chissà, si chiede Simonthon, se Pierre-Simon Laplace o James Clerk Maxwell sarebbero stati in grado di usare la matematica richiesta per lavorare alla teoria delle stringhe.
Eppure, gli scienziati del futuro faranno sempre più fatica a passare alla storia come geni rivoluzionari. In buona parte, conclude il commento di Nature, per una questione sociologica. Le grandi rivoluzioni scientifiche, come ha insegnato Thomas Kuhn nel suo celebre volume “La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche”, si verifica quando una disciplina, o un quadro teorico all'interno di una disciplina, va in crisi a causa dell'accumularsi di una serie di elementi che “non tornano”, fino a superare le resistenze di chi fino a quel momento ha lavorato all'interno di quel quadro teorico. Oggi nessuna delle scienze fondamentali sembra vicina a una crisi di questo tipo. La maggior parte di esse hanno ancora molte domande a cui rispondere (si pensi alle neuroscienze) ma non serie anomalie che possano mettere in crisi il quadro teorico di fondo. L'unica eccezione potrebbe essere proprio la fisica, che ancora non riesce a riconciliare la spiegazione della forza di gravità con quella delle altre tre forze fondamentali (elettromagnetismo, interazione nucleare forte e interazione debole). Ecco, forse l'ultima chance di passare alla storia come “genio” sarà colta da chi risolverà quel problema.