In una toccante pagina di Quattro disegni a carboncino, uno dei saggi raccolti fra i Dagherrotipi di Karen Blixen, l'autrice confessa di essere profondamente debitrice nei confronti della pittura, in quanto è stata capace di rivelarle la vera natura del reale: «la singolarità di una nazione l'ho sentita e riconosciuta nella maniera più intima quando ho potuto disporre dell'interpretazione di un pittore.

Constable, Gainsborough e Turner mi hanno rivelato l'Inghilterra... Solo gli altipiani africani mi hanno parlato direttamente, senza interprete, in una lingua che mi andava dritta al cuore». L'opera, se non su un piano più alto della vita, viene intesa di certo come la sola manifestazione capace di scendere nelle sue profondità e interpretarla, cavandone quel senso che l'esperienza bruta, confusa, non è in grado di rilasciare; fatta eccezione, naturalmente, per quell'unico orizzonte che, senza fatica, si accorda perfettamente al nostro cuore.
In questa prospettiva, Geoffrey Braithwaite, il medico inglese vedovo protagonista de Il pappagallo di Flaubert di Julian Barnes (da poco ristampato da Einaudi) traspone l'esperienza spaziale accennata da Blixen in una dimensione del tutto personale, lasciando insinuare, come un vetro colorato, fra i propri occhi e il mondo nel quale vive e si muove la passione per l'opera e la figura di Gustave Flaubert, fino a farla divenire modello imprescindibile di ogni articolazione pregna di senso e orientamento, la struttura densa e solida attraverso cui è ancora possibile cercare un barlume di verità in una realtà frammentaria e prosciugata.
Ed è proprio a Rouen infatti, città natale dell'autore di Madame Bovary, che Braithwaite vibra dell'esitazione che dà vita al romanzo: quale dei due pappagalli impagliati, quello conservato all'Hôtel-Dieu o quello che, appollaiato in cima a un grosso armadio, si trova in quel che resta della residenza di Croisset, è l'esemplare che accompagnò la stesura di Un cœur simple e fu di ispirazione per Loulou, quell'immagine lancinante, struggente e grottesca in cui, nelle ultime righe del racconto, Félicité vede lo Spirito Santo?
La ricerca della verità spinge Braithwaite ad addentrarsi nei meandri più profondi della vita e dell'opera di Flaubert, lasciando che entrambe vibrino delle note che i suoi interrogativi lasciano risuonare in esse, come se la via regia per giungere finalmente a galla non potesse non passare dalle parole, dai romanzi e dalla vita di Flaubert, attraverso le sue idiosincrasie e quella forma di sensuale (e per l'epoca audace) celibato nel quale egli volle sciogliere la propria esistenza, allestendo quegli sfarzosi «harem nella mente» che resero la sua visione così lucida e attenta all'idiozia immortale che affligge (e titilla) il genere umano.
Ma anche il mondo scolpito in questa forma è screziato di ambiguità e sfumature: il colore mutevole degli occhi di Emma Bovary diviene il pretesto per un acido sfogo contro la critica, incapace di vedere nella loro inafferrabilità null'altro se non una distrazione dell'autore; la vita stessa di Flaubert, nel secondo capitolo, viene raccontata in tre cronologie distinte, nelle quali gloria, squallore e interiorità sono le indecidibili alternative fra le quali il protagonista si aggira attonito.
Ma la verità, la realtà di tutto ciò che ossessiona Braithwaite, si manifesta nella sua luce timida e malinconica appena prima che, nelle ultime pagine, il mistero che ossessiona il medico trovi la sua soluzione, banale e sublime, in un'altra esitazione, che tuttavia a quel punto è accettata e forse addirittura benedetta; si manifesta, dicevo, nella «pura e semplice storia» di cui le pagine precedenti non sono altro che l’amplificazione: la storia semplice e senza fronzoli di un dolore profondo, inconfessabile, che si insinua fra le dotte riflessioni che tentano di trovare la propria ragione nel tragico archetipo matrimoniale di Madame Bovary, nel fallimento con l'accettazione del quale termina L'educazione sentimentale e nella visione, maestosa e ridicola, con cui culmina Un cuore semplice. Come scrive l'autore, «Geoffrey Braithwaite racconta un sacco di cose sul conto di Gustave Flaubert perché non è in grado di raccontare la vera storia che gli pesa sul cuore»; finché qualcosa, improvviso, scatta in lui.
Storia di una paralisi sentimentale, di un lutto, il romanzo di Julian Barnes è capace di parlare di ciò che è più difficile da rappresentare, con quella vigorosa discrezione di cui molta letteratura, falsamente romantica e lacrimevole, è del tutto priva, senza sbavature o cedimenti e, soprattutto, lasciando sviluppare una struttura complessa con una naturalezza che la tiene lontana da ogni concettosità o oscurità.

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