Dopo essere stato assegnato ad altri grandi nomi della poesia francese contemporanea, fra i quali Yves Bonnefoy (1987), Alain Bosquet (1989), Jacques Réda (1999) e Philippe Jacottet (2003), per citarne solo alcuni fra i più noti, quest’anno il prestigioso Premio Goncourt della poesia (Prix Goncourt de la Poésie/Robert Sabatier) è andato al poeta William Cliff. Dietro questo pseudonimo anglicizzante che lo ha reso noto, si nasconde il Belga André Imberechts, nato nel 1940 a Gembloux, piccola cittadina della Vallonia.

Il Goncourt della poesia è attribuito a William Cliff per l’insieme della sua opera poetica, pubblicata, per la maggior parte, dall’influente casa editrice parigina Gallimard, forse la più importante in assoluto nel mondo francofono; la stessa che produce gli eleganti e preziosi volumi della Pléiade.

William Cliff, prolifico autore di oltre venti raccolte poetiche, romanziere, drammaturgo e traduttore, esordisce nel 1973 con Homo Sum. Questa raccolta, forse troppo ardita per il Belgio natio, ai tempi più conformista, è pubblicata senza esitazioni da Gallimard a Parigi, sotto calorosa raccomandazione di Raymond Queneau che probabilmente aveva saputo riconoscere la schiettezza e la freschezza di questa poesia semplice e carnale, di questi versi che non si vergognano di declamare i bisogni più intimi e arditi, anche quelli sessuali. E forse è proprio per questo che lo scrittore francese Claude Roy ha ribattezzato William Cliff “Leopardi du trottoir”, il “Leopardi del marciapiede”.

Attraverso questo io poetico – una presenza costante nelle sue poesie spesso autobiografiche – Cliff condivide con il lettore, senza giri di parole o complicate metafore, anche gli aspetti più concreti e brutali dell’esperienza umana, quelli che i benpensanti chiamerebbero osceni. E questo linguaggio diretto e pungente, radicato nell’immediatezza della sensualità – da interpretarsi come percezione urgente attraverso i sensi –, caratterizza l’intera opera poetica dell’autore belga.

Questo sguardo dei sensi non abbandona Cliff neppure quando si allontana dal Paese nativo e si avventura in terre a lui sconosciute, come nelle raccolte America (Gallimard, 1983) e In Oriente (En Orient, Gallimard, 1986), nelle quali la poesia diventa diario di viaggio. Nella parte di America dedicata a Filadelfia, per esempio, ci si imbatte in questi versi scomodi che rischiano di turbare alcuni lettori:

des poils de Noirs y en a plein la douche
tout plein le bord des urinoirs
au restaurant hier j’ai trouvé
dans le beurre de mon pain un poil de Noir
ça ne m’a pas trop dégoûté
si tant est que des poils on en trouve partout
les poils se perdent les poils renaissent
qu’il soient noirs blonds ou rouges
[…]
pour rappeler nos origines malheureuses
et que malgré notre orgueil monté sur deux pattes
nous n’en venons pas moins des vieux velus à quatre pattes

[di peli di Neri ne è piena la doccia / e tutto pieno ne è il bordo degli orinatoi / al ristorante ieri ho trovato / sul mio pane nel burro un pelo di Nero / questo non mi ha molto schifato / visto che di peli se ne trovano dappertutto / i peli si perdono i peli rinascono / che siano neri biondi o rossi / […] / per ricordarci delle nostre tristi origini / e che malgrado il nostro orgoglio si sia rizzato su due zampe / non discendiamo comunque meno dai vecchi pelosi a quattro zampe ]

La sincerità disadorna e priva di filtri di William Cliff, questa sua voce che sembra non conoscere l’eufemismo, è stata talvolta paragonata a quella di [Arthur Rimbaud](/magazine/cultura/nous n’en venons pas moins), un altro poeta che non è sceso a compromessi e che non ha temuto lo scandalo. Ma se Rimbaud, sebbene abilissimo versificatore, ha scelto la poesia in prosa per alcuni dei suoi più grandi capolavori – Une saison en enfer (Una stagione in inferno, l’unica opera pubblicata dall’autore) e Illuminations (Illuminazioni) –, William Cliff radica la propria ricerca poetica nella tradizione del verso. Paradossalmente, per la maggior parte, la sua schietta semplicità si scontra e si fonde con una versificazione sapiente, anche col più classico dei versi francesi, l’alessandrino, di dodici sillabe, almeno tanto tradizionale quanto il nostro endecasillabo. Dietro l’immediatezza e il candore, talvolta sconcio, di William Cliff si celano infatti una grandissima conoscenza poetica e un amore profondo per quest’arte.

Mi piace chiudere con un piccolo aneddoto. Molto recentemente Cliff era in visita a Oxford e ho avuto il piacere di conoscerlo di persona durante una cena in College. Il poeta si è presentato vestito molto modestamente e senza darsi alcuna importanza, felice di restarsene in un angolo. Dopo la cena, al momento del caffè, in una piccola sala, si è seduto silenziosamente su un divanetto. Poco dopo, incoraggiato da un mio collega, tutto d’un tratto ha cominciato a recitare, con un filo di voce, ma con trasporto e grande concentrazione, alcune fra le più belle poesie della letteratura francese. Dalla sua memoria ha ripescato alcuni sonetti di Ronsard e alcuni versi di Paul Éluard. Gli amanti della poesia lo ascoltavano incantati. Sembrava di essere in un salone d’altri tempi, in una Parigi ormai perduta. Quella stessa sera ho anche scoperto la sua passione per Dante, del quale ha recentemente tradotto L’Inferno in francese (L’Enfer, Gallimard, 2014), rigorosamente in versi, una sfida considerevole che solo un vero poeta può permettersi di raccogliere.

Ci auguriamo che questo meritato premio alla carriera poetica, che arriva dopo tante altre importanti onorificenze, come il Grand prix de poésie (il Grande premio di poesia) dell’Académie française nel 2007, incoraggi nuove traduzioni in italiano dell’opera di William Cliff, una ventata di aria fresca nel nostro panorama letterario.