Concetto Marchesi (1878-1957), eminente filologo classico, rettore dell’Università di Padova, irriducibile comunista, partigiano, collaboratore del servizio di spionaggio inglese, esule in Svizzera, criptofascista (secondo alcuni) e molto altro è stato più volte descritto, con intento talora encomiastico (Manara Valgimigli), talaltra rabbiosamente denigratorio (Giorgio Pasquali) come «il giornalista della letteratura latina»: prima ancora che insigne studioso e raffinato erudito (l’edizione critica di Arnobio, innumerevoli studi sulla latinità cristiana e sul teatro elisabettiano), di lui è infatti soprattutto nota la Storia della letteratura latina, nei cui due volumi, secondo un celebre giudizio di Togliatti, l’antico fulgore di Roma riprendeva vita al cospetto del lettore.

Trentacinque anni dopo il fortunato e controverso La sentenza (Sellerio, 1985), Luciano Canfora torna ad occuparsi di Marchesi attraverso una monumentale biografia: Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano. A quanti decidano di accettare la sfida di una lettura tanto avvincente quanto impervia, di questo aristocratico cattedratico catanese Canfora offre un ritratto che tanto più si apprezza quanto più di esso si è in grado di cogliere la distanza che lo separa dall’agiografia costruitasi, post mortem, intorno alla figura di Marchesi. Non solo: come si addice ai migliori biografi, nel ripercorrere la vicenda intellettuale e umana di un uomo che, in un’informativa del britannico Office War Information del febbraio 1945, veniva descritto come un «dirigente di seconda fila del PCI, una natura violenta e sanguinaria», Canfora ricostruisce, tra l’altro, un quarantennio (1920-1960) cruciale per la storia d’Italia e di quell’entità socio-culturale che, a torto o a ragione, si (auto)definisce «mondo occidentale».

Canfora paragona Marchesi ad «un sito geologico» attraverso la cui stratigrafia è possibile ricostruire la storia dell’intero movimento operaio italiano, dai fasci siciliani alla scissione di Livorno, dalla lotta resistenziale alla svolta di Salerno fino al culmine del «terribile 1956». Per interesse e acume critico si segnala l’analisi (Parte XI, capp. 9 e 10) del processo di «canonizzazione» di Marchesi (morto il 12 febbraio, cerimonia alla Camera il 14), magistralmente condotta da un Togliatti febbrilmente alla ricerca di un rimedio all’emorragia di intellettuali a seguito del XX Congresso del PCUS e dell’intervento sovietico in Ungheria. Prendendo spunto dal furibondo intervento di Marchesi all’VIII Congresso del PCI contro l’ipocrita mea culta chruščëviano, Canfora formula un giudizio di sintesi estremamente acuto, e che meriterebbe approfondita discussione, del tormentatissimo primo decennio dell’Italia postfascista e postrepubblichina. La dettagliata ricostruzione storica che permea queste pagine ne costituisce il pregio maggiore, tanto più in un Paese nel quale, colpevole tanto la sciatteria di parte del ceto dirigente quanto un’ignoranza sempre più diffusa tra la popolazione, il significato etico e civile della cultura e della memoria storica si fanno merce più rara con ogni volger d’anno.

L’originalità del Sovversivo, ciò che davvero ripaga con gli interessi degli strapazzi ai quali la prosa nella quale esso è scritto sottopone il lettore, è data dalla ricostruzione del percorso intellettuale di Marchesi. Canfora è infatti in grado di mostrare, attraverso una magistrale analisi delle tre opere maggiori di Marchesi e delle loro molteplici riedizioni (il Tacito (19241, 19422), la Letteratura Latina (19251, 19537), l’introduzione e il commento al Bellum Catilinae (19391, 19513) come la cultura sia, prima ancora che un’ottima fonte di reddito anche e prima di tutto un formidabile motore della prassi storica. Attraverso una sapiente esegesi tanto dei testi antichi quanto del loro commento novecentesco, Canfora mostra come l’amarissima riflessione di Sallustio e, in misura ancora più significativa, di Tacito su temi quali il potere, la violenza e il popolo abbiano spinto Marchesi ad una meditazione tanto intensa quanto tormentata sul potere sulla violenza e sui popoli («le masse») del suo tempo.

Le conclusioni alle quali Marchesi giunge negli anni Quaranta riflettendo sul trapasso dalle guerre civili al principato (della cui profondità testimoniano le successive edizioni della Letteratura Latina) suonano decisamente sinistre: Stalin, come Cesare ed Augusto, con tanti saluti alla canonizzazione del primo e, soprattutto, del secondo, non solo nella Roma «fascistissima», porta al trionfo la propria fazione nel momento stesso in cui la distrugge. E poco di meglio sembrerebbe lasciar sperare il celebre, e velenosissimo e criticatissimo paragone tra Chruščëv e Tacito con quel suo sottile (e perciò da pochi compreso) altro paragone, vale a dire tra Stalin e Tiberio: e ciò nonostante esso si riveli, ad un’analisi accorta, molto più del conato di bile di un čekista mancato (la «natura violenta e sanguinaria»). Nel valutare due uomini (Stalin attraverso Tiberio e, inevitabilmente, Augusto) che tanto le intricate peripezie del loro tempo e dei loro mondi quanto una – spietata – abilità politica avevano condotto a imprimere nella storia «suggello di grandezza e necessità», Marchesi individua, nel momento e nella sede più difficili per un militante quale lui era e sempre si ritenne, la violenza (anche e soprattutto, anzi prima di tutto) ai danni della propria factio quale il solo mezzo in grado di porre fine al dramma delle faide intestine destinate inevitabilmente a scoppiare in ogni regime assembleare, alla mercé di «turbe di volubili elettori». Tanto la storia di Roma quanto i fatti di Spagna, la marcia su Roma e la capitolazione della Francia di fronte alla Wehrmacht, secondo Marchesi offrivano di ciò prova inconfutabile.

Deve dunque ogni movimento di liberazione (quale agli occhi di Marchesi, e non solo suoi, la Rivoluzione russa era e continuava ad essere anche nella sua forma «realizzata») inevitabilmente sperare di essere unito dalla e nella figura di un «Capo» se vuole ambire a cambiare la storia? Troppo colto per essere dogmatico, Marchesi sembra affidare la sua risposta (che è un perentorio «no») ad uno scritto (all’apparenza) ideologicamente allineato quant’altri mai: Perché sono comunista. Raffinatissimo conoscitore della letteratura cristiana e tardoantica, Marchesi dichiara la libertà e il rispetto, la cura e l’amore dell’individuo, la ragion d’essere, l’essenza e il fine ultimo di forma pensabile di socialismo. Quarant’anni dopo il disfacimento dell’URSS, tanto la figura di Marchesi («seminatore di dubbi») quanto la sapiente narrazione del mondo in cui quest’ultimo si mosse da parte di Canfora offrono spunti di riflessione ineludibili per tutti coloro i quali, per dirla con Marchesi stesso, «hanno l’animo dell’oppresso senza averne la rassegnazione». Detto altrimenti, per tutti coloro i quali, non a proprio agio con il mondo così com’è, non hanno ancora rinunciato a interrogarsi su come sia possibile cambiarlo in meglio.

Luciano Canfora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 1005

Crediti immagine: © Copyright Editori Laterza

Argomenti

#stalin#PCI#Luciano Canfora