Nel 1913 Ernst Lewy pubblicò uno studio Sulla lingua del vecchio Goethe. Saggio sulla lingua del singolo, nel quale constatò la trasformazione cui era stata sottoposta la lingua del poeta nelle opere della tarda maturità; tuttavia, mentre critici e storici della letteratura imputarono il cambiamento a motivazioni stilistiche, Lewy riconobbe in quella nuova forma il distaccarsi dalla morfologia delle lingue indoeuropee a favore di quella tipica delle lingue agglutinanti, come il turco, con una propensione quindi alla frase nominale pura e alla caduta dell’articolo: in un certo senso, è come se Lewy suggerisse che la metamorfosi cui la lingua di Goethe si è assoggettata provenisse da un passato molto lontano, da zone a tal punto ampie e profonde da rendere la volontà del singolo poca cosa, un’inezia, se paragonata alle forze impersonali messe in movimento.

È il tema della sopravvivenza dell’antico e dell’arcaico, del modo in cui un elemento del quale si è smarrita la consapevolezza riesca a trascorrere attraverso oceani di tempo, magari sotto mentite spoglie; quella sopravvivenza che Aby Warburg è riuscito a rintracciare, ad esempio, della ninfa antica in un’ancella che movimenta La nascita di San Giovanni Battista di Ghirlandaio.

In questa prospettiva, Storia notturna di Carlo Ginzburg (pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1989 e appena ristampato, con una nuova postfazione, da Adelphi), si immerge nell’analisi di un fenomeno che dai tempi di Michelet la disciplina storica ha interrogato con accanimento: il sabba; distaccandosi tuttavia, da un lato, da uno storicismo troppo illuministico incapace di comprendere le confessioni stregonesche nella loro serietà (un atteggiamento ben rappresentato dall’opera di Trevor-Roper), dall’altro, da una esoterica visione intrisa di organizzatissime società segrete dedite al culto di una bizzarra philosophia perennis (corrente della quale Margareth Murray, forse attraverso la mediazione romantica, è la rappresentante più famosa). Da tutto questo Ginzburg si distacca, allontanandosi lungo una terza via che possa spiegare il sabba non semplicemente come scaturito da un’immagine inquisitoriale, bensì come l’apparizione (o riattivazione) di un sostrato antico e profondissimo: di un complesso mitico, in poche parole, sopravvissuto senza che un complesso rituale lo tenesse in vita.

Attraverso un comparativismo ampio e ricco, modulato come un grande oratorio bachiano, Ginzburg si muove a partire da un approccio morfologico del quale Wittgenstein diede esempio nelle note scritte a margine del Ramo d’oro («La spiegazione storica, la spiegazione come ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere i dati – la loro sinossi. È ugualmente possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in una immagine generale che non abbia la forma di uno sviluppo cronologico»), vedendo in esso, anziché l’abdicazione della Storia, la fondazione di quest’ultima non più intesa alla stregua di Historismus positivistico, ma come diacronia che scaturisce dalla morfologia, in un rovesciamento dello stesso assunto di Wittgenstein, per il quale la connessione formale non poteva essere considerata un’ipotesi evolutiva.

Nel XIV secolo, le crisi economiche e sociali in atto, come la peste, misero in moto una catena persecutoria a un capo della quale lebbrosi ed ebrei, in un processo che non durò nemmeno un secolo, diedero adito all’apparizione dell’immagine di una setta organizzata di streghe e stregoni: tutte figure socialmente liminali alle quali, proprio per questo, era più facile attribuire un fantomatico complotto i cui ingredienti principali erano costituiti dal caos e dal rovesciamento dell’ordine costituito, concretatisi nei poli dell’antropofagia (soprattutto infantile) e della sfrenatezza orgiastica. Se questa tesi, espressa nella prima parte dell’opera, non incontrò particolari resistenze, la “congettura euroasiatica”, che mette in connessione alcune figure specifiche emergenti nel sabba (le metamorfosi animalesche, il volo verso i raduni notturni) con un retroterra incredibilmente antico e ampio, affondato nella cultura sciamanica ed estatica che attraversò gran parte dell’Asia e dell’Europa nell’antichità, mise invece la seconda e terza parte di Storia notturna sotto una luce più ambigua, di primo acchito difficile da accettare. Ginzburg individua nella nèkyia, cui gli elementi prima evocati inequivocabilmente accennano nelle religioni estatiche, un nucleo originario, fondante, che attraverso una serie di metamorfosi trapassa attraverso gli strati geologici per giungere alla modernità.

Non stupirà, in questa prospettiva, che Ezra Pound abbia affidato l’incipit di un poema come I Cantos, così profondamente orientato alla definizione di una genealogia umana e culturale, al rifacimento dell’XI libro dell’Odissea non direttamente dall’originale, bensì da una versione rinascimentale di Andrea Divo da Capodistria, offrendo una metafora della fondamentale importanza che la catabasi, o comunque il contatto coi morti, ha avuto nel corso della Storia, attraverso riscritture e reinterpretazioni.

Ma, per fare questo, Ginzburg ha dovuto rivedere radicalmente il concetto di archetipo; lo stesso Romano Màdera, nella recente monografia dedicata a Jung, ha posto in rilievo la necessità di allontanarne la fisionomia da quell’immobilità tipica di «una trasmissione ereditaria di caratteri culturali acquisiti». Stornando questa impostazione a favore di una visione che individui, invece, le costrizioni formali nella simmetria e nella stazione eretta del corpo umano, Ginzburg forse non risolve il problema della trasmissione dei miti, ma si avvicina di sicuro a quella morfologia dinamica che Goethe, in un distico fulminante de La metamorfosi delle piante, così espresse: «Tutte le forme sono simili e nessuna somiglia all’altra, / E così il coro accenna a una legge segreta».

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