«Possibile mai che rinunciassero / alla loro bella vita; ai divertimenti / quotidiani di ogni sorta; al loro splendido / teatro, luogo di incontro dell’Arte / col fervore dell’eros, della carne?». Forse i versi di Kavafis sprigionano, intrisi come sono di uno spirito agli antipodi del mero Historismus (nell’accezione che Benjamin diede a questo termine), il sapore di un’epoca, quella tardo antica, in cui, come scrisse Glen Bowersock, «poteva trovare il proprio posto un edonista, al tempo stesso cristiano e greco»; un’epoca che Peter Brown, in un volume appena pubblicato da Einaudi in una nuova edizione, Il mondo tardo antico (traduzione di Maria Vittoria Malvano), riesce a evocare coniugando la precisione dello studioso di storia e antropologia con la finezza profonda di un Montaigne, incline quindi a leggere i meri dati che la ricerca storiografica ed epigrafica comunica mutandoli in una sintassi strutturata e sensibilissima, in un discorso evocatore di molteplici significati.

Se al cultore di materie storiche il nome di Peter Brown è naturalmente ben noto, non sarà d’altro canto   infruttuoso presentarne sommariamente la figura e le linee di pensiero al profano che voglia avvicinarsi al periodo sul quale la sua ricerca ha insistito e alla sua opera.

Nato a Dublino nel 1935 e laureatosi a Oxford nel 1956 sotto il magistero di Arnaldo Momigliano, Peter Brown è autore di alcuni testi fondamentali per comprendere la tarda antichità, dai quali emerge un approccio le cui principali direttrici possono essere individuate: in una visione che, a scapito di un modo di intendere la Storia come isomorfica alla vita biologica, con il suo processo ineluttabile di nascita, ascesa e decadenza (rappresentato da uno storico come Gibbon o da un autore che, invece, storico non fu: Oswald Spengler), sa cogliere al contrario le continuità, il permanere di strutture arcaiche (ma non archetipali, sempre comprese nel loro alveo storico) o superate, osservate nelle loro sopravvivenze (per usare un termine caro a Warburg) sotto le spoglie che il divenire storico ha loro imposto, allontanandole così dal significato originario (in un’epistrofe verso un’origine, come ha dimostrato abilmente Georges Didi-Huberman in un bel saggio su Blanchot, non mai raggiungibile); nella considerazione del fenomeno religioso come fatto centrale, promotore assieme ai fenomeni economici e politici dei mutamenti in atto e non attore secondario, un filo vigoroso, insomma, che innerva abitudini, idee, corpi; e, infine, nella dilatazione del periodo cosiddetto tardo antico fino al IX secolo, fino al nascere e all’attestarsi dell’Islam.

Non stupirà, quindi, che il suo testo su Il culto dei santi (sempre pubblicato da Einaudi), venga considerato da Carlo Ginzburg come l’opera più importante per comprendere un fenomeno il quale, senza le peculiarità appena esposte, sarebbe materia di un’interpretazione tanto vaga quanto inesatta nel suo volervi attribuire una natura di novità troppo radicale e ignorandone così la continuità con l’habitus pagano.

Ne Il mondo tardo antico Brown traccia un disegno pulsante e vividissimo della metamorfosi cui l’impero romano è sottoposto durante il III secolo d.C., quando l’ansia che, sottile, pervade già più di un secolo prima quell’opera straordinaria che è il De defectu oraculorum di Plutarco, si manifesta, con un’evidenza fino a quel momento inedita, nell’insicurezza che dal 240 d.C. le invasioni barbariche cominciano a instillare nel tessuto sociale, creando così un contesto che poco più di un decennio prima un autore come Dione Cassio non aveva nemmeno presentito, sicuro com’era dell’immutabilità non solo di Roma eterna, ma anche dei privilegi che quella società,  rigidamente divisa fra un’aristocrazia senatoria e un mondo oscuro di contadini sottosviluppati, di “zotici” e “barbari, garantiva, attraverso un approccio che Erich Neumann avrebbe chiamato “negazione della negazione”: se, infatti, «le classi governanti dell’impero romano si erano mantenute in gran parte immuni dai più virulenti esclusivismi dei regimi coloniali moderni», tuttavia non riuscirono a evitare di esigere il conformismo al proprio stile di vita e alla propria cultura, conditio sine qua non per elevarsi dallo stadio infimo nel quale l’assenza di una paideia solidamente classica confinava.

Il perfetto realizzarsi della propria interiorità in una vita pubblica organizzata, come i templi e le cerimonie pagane, si interrompe, proprio in quegli anni, dando vita a una rivoluzione spirituale gravida di conseguenze profondissime**;** Plotino e Antonio, «questi due straordinari egiziani», sebbene antitetici, rappresentano con grande chiarezza la Stimmung di questa epoca: in un ripiegamento verso la propria interiorità, attraverso il quale il corpo e l’esteriorità possano perdere i propri privilegi a favore dello spirito e dell’intelletto, la dialettica di “conversione” e “rivelazione” inizia, lentamente, a creare la figura di un uomo nuovo, capace di trovare la propria fisionomia in una biografia che non contempli, per forza, episodi eclatanti, ma che sia la storia del proprio cuore e dei movimenti, allo stesso tempo sottilissimi e squassanti, che esso produce. Un processo che avrebbe trovato, in una figura monumentale come quella di Agostino, compiuta fine e stentato inizio, in un movimento che ancora oggi non vediamo esaurito.

Peter Brown, Il mondo tardo antico (trad. di Maria Vittoria Malvano), Einaudi, 2017, pp. 236

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