«La Siberia – scriveva Čechov al fratello nel giugno del 1890 – è una terra vasta e gelida. Avanzo, avanzo senza scorgerne la fine». In questo spazio sconfinato, che «inizia da qualche parte negli Urali e finisce Dio solo sa dove», lo scrittore aveva visto «poco che sia interessante e nuovo ma, d’altro canto» aveva «sentito e sperimentato molto». La lettera proseguiva con una di quelle battute di spirito che ne rivelano il carattere come difficilmente altrimenti: «Ho avuto quel tipo di sensazioni che non proveresti a Mosca nemmeno per milioni di rubli. Dovresti venire in Siberia! Chiedi al pubblico ministero di esiliarti quaggiù». Nel 2016, a seguito di un incontro (che da solo meriterebbe un libro) nella valle dell’Orkhon con una talentuosissima pianista mongola di nome Odgerel Sampilnorov ed il suo mecenate, il tedesco Franz-Christoph Giercke la cui vita da sola riassume più di un capitolo della storia europea del 1900, Sophy Roberts si è imbarcata in una ricerca durata tre anni da un capo all’altro della Russia sulle tracce di decine di pianoforti. L’intento originario, così si apprende nella Nota dell’autrice in apertura del resoconto di tale viaggio, era dotare Odgerel di uno strumento che fosse all’altezza del suo virtuosismo. Come aveva osservato Giercke, checché se ne dica, uno Yamaha moderno non può competere con i suoi predecessori ottocenteschi, di cui la Russia un tempo traboccava, e in alcuni casi nemmeno con i migliori rappresentanti della manifattura sovietica, i cui superstiti dell’ecatombe seguita alla perestrojka prima e alla devastante crisi economica degli anni Novanta dopo era ancora possibile rinvenire, forse, in qualche sperduta scuola di musica o in una casa privata.

Il suono perduto della Siberia (riuscita traduzione, una volta tanto, dell’originale inglese Lost Pianos of Siberia) è l’ispiratissimo, originale, a tratti commovente esito delle peripezie di Roberts: a voler riassumerne il contenuto in estrema, e in ultima analisi brutale, fuorviante sintesi, un viaggio, nel senso letterale e metaforico del termine, attraverso la storia europea e la cultura russa dal punto di vista della tradizione musicale. Diviso in tre parti, dedicate rispettivamente alla Pianomania ottocentesca (pp. 13-136), alle Corde spezzate su quello che Marina Cvetaeva definì «il vecchio mondo» (pp. 139-254), per chiudere, čechovianamente, «Dio solo sa dove», alla «Fine di Tutto» nella penisola della Kamčatka (pp. 257-304) prima di fare ritorno, in un sublime Epilogo (pp. 307-320), in quella valle dell’Orkhon dove tutto aveva avuto inizio, questo strabiliante saggio, che unisce i toni scanzonati della più felice letteratura di viaggio alla cronaca tersa, nella sua raggelante brutalità, di storie di vita passata e presente che il mondo opulento, viziato e cinico nel quale siamo immersi può a fatica anche solo concepire, prende le mosse dall’ascesa al trono di Caterina la Grande – tra intrighi e veleni di ogni sorta (reali e simbolici) – nel 1762, agli albori di un’industria musicale che di lì a poco avrebbe celebrato un trionfo dietro l’altro da San Pietroburgo a Chicago. Dopo questo abbrivio, il volume procede con l’inesorabile determinazione del vento della steppa in una cavalcata mozzafiato attraverso l’intero territorio russo, da Mosca a Tobol′sk e da Magadan ai colori abbacinanti dell’Altaj fino ai più deprimenti recessi del Finis Terrae sovietico, la cui atmosfera inizia vagamente a intuire solo chi abbia trovato il coraggio di immergersi a fondo nelle pagine dei Racconti di Kolyma del grande – e per lo meno in Italia troppo poco noto – Varlam Šalamov: il tutto alla ricerca di pianoforti d’epoca e delle storie che tali oggetti portano con sé.

Che siano del resto le storie, e non, di per sé, gli oggetti il centro di gravità permanente del Suono perduto della Siberia lo capisce immediatamente (e fino in fondo) colui che abbia meditato l’immagine con cui si apre un’altra, travolgente, sublime, disperante catabasi in un mondo di Cose preziose come Incantati dalla morte di Svetlana Aleksievič. Un anziano pensionato di un’anonima città di provincia, cacciato come un cane dal suo villaggio natio a 17 anni quando si era unito ai rivoluzionari, veterano della Seconda guerra mondiale e malmenato di fresco da quattro tangheri ubriachi nel pieno del disfacimento di ciò per cui aveva lottato tutta la vita («se voi altri stronzi non aveste vinto a quest’ora staremmo bevendo birra») si reca un’ultima volta, prima di impiccarsi, a controllare che la statua di Lenin sia ancora dove era abituato a vederla, nella piazza della Rivoluzione, nella speranza di andarsene, lui, prima che anche l’ultimo simbolo della sua intera esistenza gli venga strappato da sotto il naso.

In quanto tale, la statua di Lenin non è che un pezzo di metallo, per altro di valore estetico dubbio, che ritrae un signore di mezza età tracagnotto e in stato avanzato di calvizie. Ciò che la rende unica è, per l’appunto, la sua storia, ciò di cui – per dirla con Vasilij GrossmanVita e destino l’hanno infusa. Lo stesso vale per i pianoforti che Roberts ha rintracciato nei posti più improbabili della Russia, non da ultimo grazie all’aiuto sincero, disinteressato, e a più tratti eroico, di uno stuolo di personaggi che animano le pagine del Suono perduto dalla prima all’ultima, facendo di questo saggio una delle testimonianze più felici che l’editoria contemporanea degli ultimi anni conosca dell’incontro di uno straniero con un mondo tradizionalmente percepito, e oggi con una drammaticità che non si ricordava da tempo, come fondamentalmente altro (e dunque ostile e sospetto). Alla luce dell’aria che tira dal 24 febbraio 2022, si tratta di un più che benvenuto promemoria di ciò che la Russia è (stata) accanto al – e nonostante il – campionario di clericalismo oscurantista, machismo tossico e nazionalismo fascistoide che è divenuto il putinismo (magistralmente, profeticamente presentato a chi solo avesse occhi per vedere nella dilogia Brat, 1997 e 2001, di Aleksej Balabanov).

Non è dunque futile spendere una parola in più sugli uomini – e le donne – che, nella migliore tradizione del romanzo polifonico russo, fanno capolino, spesso in ruoli tutt’altro che comprimari, accanto a Roberts nel suo viaggio in un mondo in cui, come le ricorda una delle interlocutrici durante uno spuntino nel paesaggio lunare di Salechard, «l’unica musica che sentirai è quella del bollitore sul fuoco».

Kostya, erede di una famiglia di accordatori di Novosibirsk che custodisce gelosamente, in uno scantinato che sembra la tana del Bianconiglio, lo strumento che fu forse usato per la prima della Leningradskaja di Šostakovič; zio Vitija, la guardia forestale assieme alla quale Roberts si ritrova a osservare, a ottanta metri di distanza, uno dei circa cinquecento esemplari di tigre siberiana ancora a piede libero; il mitico Leonid Kalošin, per lungo tempo navigatore dell’Aėroflot prima di ritirarsi tra le montagne al confine tra il Qazaqstan e la Mongolia alla ricerca del paradiso perduto (mentre a tempo perso raccoglie fondi per costruire una sala da concerto); Semën Nyaruy, un nenets nonagenario dall’orecchio assoluto il cui padre aveva portato il grammofono, e il comunismo, tra i pastori di renne della penisola di Jamal; Vera Lotar-Ševčenko, una virtuosa di origini francesi sepolta nella città della scienza (Akademgorodok) simbolo degli ideali – traditi – dell’era chruščëviana la quale, di ritorno dal GuLag e con ancora addosso il terribile cappotto imbottito ben noto a tutti i lettori di Solženicyn, si era seduta a un Mühlbach a mezza coda fino a strappargli dalle corde un’anima che gli attoniti spettatori di un concerto che solo lo stalinismo avrebbe potuto produrre mai avrebbero sospettato possedesse, o che fosse possibile rievocare; Elena, la discreta, modesta, ma perseverante e indefessa interprete, senza il cui lavoro dietro le quinte difficilmente l’autrice sarebbe mai riuscita a farsi strada in posti come la periferia di Susuman, o ancora l’ornitologa dilettante australiana (ottant’anni, non sentirli, e un ginocchio fracassato) incontrata durante una crociera alla caccia di un pettirosso che alcuni reputano estinto tra le isole Curili e Commodoro, sullo stesso fuso orario di Aukland, laddove la Siberia, e con essa probabilmente il mondo tutto, finisce per poi ricominciare, «segni di un’antica fiamma», nella foggia delle coste americane, un tempo anch’esse proprietà degli tzar′.

«Mary – annota Roberts (p. 294) – si rifiutava di appassire in un mondo chiuso e angusto. Ascoltandola ridacchiare nel sonno, sapevo che capiva meglio di chiunque altro perché noi due fossimo lì e che anche in un posto arduo come la Siberia ci poteva essere qualcosa di magico celato nella nebbia. La mia caccia a un pianoforte e il pettirosso giramondo di Mary avevano in comune più di quanto sembrasse: né io né lei eravamo là per ottenere certezze, bensì per la remota possibilità di veder comparire una piccola meraviglia».

Sophy Roberts, Il suono perduto della Siberia, Milano, Mondadori, 2021, pp. 376

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