Gli scaffali delle librerie vennero svuotati, il 12 settembre 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Si cercavano libri sull’islam, sulla politica estera americana, sull’Iraq, sull’Afghanistan, su tutto ciò che potesse dare delle risposte, chiarire le ragioni dell’assalto.
E cominciava, sempre in quelle ore, un importante dibattito sulla presenza americana nel mondo, sulle reazioni che poteva suscitare, sulle sue conseguenze: appariva davanti agli occhi di molti uno schema di causa ed effetti che solo dopo poche settimane, già alla fine di ottobre, scomparve.
In una manciata di giorni la prospettiva universalmente accolta dalla popolazione americana, soprattutto di New York e Washington, era stata stravolta. Non ci si chiedeva più quale fosse l’apporto negativo, quali fossero le responsabilità della politica americana alla base dell’attacco di al Qaeda; adesso il problema era diventato esclusivamente «islamico»: cosa, nel mondo islamico, ha interrotto, frenato, ostacolato l’illuminismo indispensabile per coltivare democrazia, istruzione e progresso?
Era diventata «un’idea fissa» della maggior parte dell’opinione pubblica americana: loro, «gli islamici», «i cattivi», negli assalti suicidi che hanno condotto, hanno voluto attaccare un’idea di civiltà loro opposta, nemica. Il principale obiettivo degli americani, «i buoni», non doveva essere, allora, quello di contrattaccare o di vendicarsi: la missione statunitense doveva assumersi un duplice dovere, liberare e civilizzare. Come scrissero alcuni commentatori dell’epoca, era giunto il momento di fare ruotare la storia sul proprio cardine: una visione molto teleologica, e così era necessario restasse, perché l’arrivo in Medio Oriente degli americani era necessario che nell’immaginario pubblico coincidesse con il tanto atteso sopraggiungere del benessere. Sui giornali, si leggeva, che i giovani mediorientali non aspettavano altro, che vedevano gli Stati Uniti come il loro «liberatore naturale».
Pochissimi forse ricordavano le parole di Tacito, nell’Agricola, «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», ‘dove fanno il deserto, lo chiamano pace’.
Pochissimi, ma tra di loro c’era sicuramente la scrittrice Joan Didion, che nel 2003 scrisse un libro essenziale su questo tema critico, Idee fisse. L’America dopo l’11 settembre (da poco pubblicato dal Saggiatore), in cui raccontava l’annebbiamento collettivo che aveva colpito i cittadini americani dopo la caduta delle Torri Gemelle.
Lo fece fornendo nomi e cognomi di chi tentò di dare una visione lucida del problema – come Steven Weber, consulente di analisi dei rischi per il Dipartimento di Stato, da cui abbiamo tratto il racconto sulle librerie – e di chi offriva una visione distorta della storia – come Micheal Kelly sul Post, da cui abbiamo ripreso la storia dei giovani mediorientali filoamericani.
Ma ancora più efficace, nelle pagine di Idee fisse, fu evidenziare un peculiare atteggiamento politico – che certo anche oggi contraddistingue il dibattito civile – per cui, nei momenti di estrema crisi di uno Stato, la fisiologica risposta della popolazione è adagiarsi sui racconti facili, chiari e netti. Non importa se confortati dalla logica e dalla razionalità, ciò che conta è che siano verità immediate e semplicemente accessibili. Di contro, qualsiasi tentativo di confutare quell’adagio viene segnalato come un sovvertimento dell’ordine pubblico, un nuovo attacco allo Stato e al suo tentativo di ripresa. Quindi, sono due le posizioni che si vengono a configurare: chi accetta la narrazione che lo Stato vuole che si faccia, per potere agire nel modo in cui ritiene più etico agire; e chi cerca di dubitare delle idee fisse, delle opinioni necessarie e perentorie, prova a interrogarsi un secondo in più sui rapporti tra causa ed effetto, e per questo viene immediatamente identificato come un complice del nemico.
Leggiamo dalle parole di Didion: «Un’indagine sulla natura del nemico che fronteggiavamo, in sostanza, veniva interpretata come simpatia per il nemico. L’unica parola per descrivere quelli che ci attaccavano doveva essere “cattivi” o “malfattori”, costrutti peculiari che suggerivano che chi li usava trasmetteva il messaggio di un’autorità somma. Questo fu l’anno in cui sembrava che fossimo precipitati di colpo in un mondo premoderno. Le possibilità dell’Illuminismo svanirono. Improvvisamente ci veniva richiesto di accettare – e di fatto accettavamo – un tipo di ragionamento così fragile che poteva essere basato sulla promessa di ritorno dei cargo gods».
Ci chiediamo, a questo punto, che effetto facciano queste parole a vent’anni da quei tragici eventi, e a pochi giorni dal definitivo ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan.
Ci chiediamo se, a volte, le parole degli intellettuali non siano soltanto le parole di una qualsiasi Cassandra, se certe volte non bisognerebbe ritornare su quelle parole. Pensare che non siano profezie tristemente avverate, ma presagi ancora in corso. Che siano ancora efficaci per vedere meglio, vedere di più. Sradicare dalla nostra coscienza i nostri fissi convincimenti.