La – vagamente definita ma assai evidente nei suoi risvolti, dalla politica migratoria a quella fiscale fino al nazionalismo rampante – crisi identitaria che da più di un decennio attanaglia l’Europa, dentro e fuori l’Unione, può forse essere concepita nei termini più generali di una crisi di memoria. Nei suoi risvolti più farseschi, la bontà di una tesi del genere è esemplificata dal caso di Ebbw Vale, una cittadina gallese devastata dalle conseguenze di una deindustrializzazione priva di qualsiasi regola, per non parlare di una seppur minima attenzione alle conseguenze sociali di suddetta congiuntura (in perfetto stile thatcheriano) e rinata a nuova vita grazie a massicci investimenti comunitari nella quale, complici anche le maggiori piattaforme sociali, i Brexiteers celebrarono un, assurdo ma tutt’altro che incomprensibile, trionfo. Da un punto di vista meno grottesco, benché ugualmente preoccupante, la diffusa ignoranza di molte delle più basilari caratteristiche della struttura dell’Unione indica chiaramente come una parte non minoritaria dei cittadini dell’Europa stentino a concepire se stessi in un’ottica più ampia di quella del Paese d’origine, con buona pace della globalizzazione, di Zoom e via dicendo.

Non si tratta di segnali rassicuranti, e fonte di ancora maggiori inquietudini è l’apparente totale incapacità delle classi dirigenti, dal Portogallo alla Lituania, di rendere adeguata ragione ai rispettivi connazionali dell’esistenza di un orizzonte continentale comune, ovvero dell’idea stessa di Europa. Per quanto poco attraente possa suonare in un’epoca di rabbioso anti-intellettualismo, quando non di aperta esaltazione dell’ignoranza («questo Paese ne ha avuto abbastanza di esperti» sentenziò Michael Gove in un memorabile comizio), uno dei più efficaci antidoti a una china di questo genere non può che essere lo studio del passato.

Sostenere, sulla scorta di Masha Gessen, che Il futuro è storia (2019) può infatti voler dire ben di più di una nostalgica, e quasi inevitabilmente proclive allo sciovinismo, contemplazione dei tempora acta: significa al contrario poter valutare ‒ in chiave costruttiva ‒ sia gli esiti di determinati progetti, sia interrogarsi circa il dove avrebbero potuto condurre tutti gli, innumerevoli, altri che, per le ragioni più diverse, vennero abortiti, abbandonati in corso d’opera, o persino travisati (a questo proposito il comunismo sovietico offre il più tragico, nel suo esito catastrofico, degli esempi a disposizione).

In un’ottica di questo genere non si può che apprezzare la recente pubblicazione del secondo volume (L’Europa nel vortice. Dal 1950 a oggi) di una biografia politico-culturale del continente europeo firmata dall’autorevole modernista Ian Kershaw (già autore di una monumentale biografia hitleriana ristampata in versione brevior per Bompiani e di prossima, meritoria, integrale ripubblicazione). Il titolo originale del saggio (Roller-Coaster, qualcosa come Sull’ottovolante) dice molto della lente interpretativa attraverso la quale l’autore guarda alle vicende europee negli ultimi 70 anni, dalla conclusione della Seconda guerra mondiale al voto sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea del 2017, a cui si aggiunge un’appendice sulle recentissime consultazioni del 2019.

Usciti da un conflitto che ne aveva seriamente minacciato l’esistenza in quanto tali, i popoli europei, questa la tesi di fondo del volume, hanno intrapreso un lungo e accidentato cammino verso un assetto a base di economia di mercato e democrazia rappresentativa la cui combinazione, non senza intoppi e in modo tutt’altro che uniforme, ha in ogni caso garantito un periodo inusitatamente lungo di pace e prosperità. Per di più, questo assetto si è dimostrato, in più di un’occasione e spesso contro le aspettative di molti, in grado di sopravvivere sia a violente scosse esterne (la crisi petrolifera del ’73 o il tracollo finanziario del 2008) sia, fatto notevole, interne (la gestione del pasticciaccio brutto greco, le conseguenze di quella che si è soliti definire, non senza una punta di vittoriana pruderie, «crisi dei rifugiati»).

Le tappe di questo percorso sono riassunte da Kershaw in dodici capitoli articolati in 697 pagine (a cui seguono un post scriptum e un’appendice): dallo stallo postbellico, con al centro la questione tedesca, al consolidarsi della cortina di ferro, dalla morte di Stalin alla crisi dei missili di Cuba, dal «terribile ’56» a Praga passando, tra l’altro, per i Beatles, la pillola anticoncezionale, il Vietnam, la perestrojka, il crollo del muro di Berlino, le guerre iugoslave e la rinascita dell’Impero russo sotto Putin fino alla guerra di Crimea e, come detto, la Brexit.

Questo sin troppo rapido sommario permette per lo meno di evidenziare due aspetti degni di nota. In primo luogo, la natura tutt’altro che teleologica del cammino, un fatto che dovrebbe contribuire a fare piazza pulita di qualsiasi facile e autoassolutorio ottimismo da «magnifiche sorti e progressive»: nel 1914, un’Europa mai così confidente in se stessa e nei suoi (presunti) valori si imbarcò in un’operazione di annientamento, proprio e altrui, che non conosce precedenti nella tutt’altro che idilliaca storia umana; non vi è ragione di poter escludere recidive, tanto più catastrofiche quanto più distruttivi sono i mezzi oggi a disposizione. Accanto a ciò spicca l’orizzonte mondiale della vicenda europea degli ultimi 70 anni. Con buona pace dei cosiddetti sovranisti, l’adagio in virtù del quale il battito d’ali di una farfalla a New York causa un tifone in Australia non è mai stato così vero: nell’Antropocene, insomma, si va avanti o si affonda insieme.

Il problema, nemmeno a dirlo, è in che modo intendere questo «insieme». Riflettendo sui possibili scenari futuri all’interno dei quali l’Unione Europea potrebbe muoversi (o implodere), Kershaw non rifugge da un giudizio complessivo che merita una citazione in extenso. A suo modo di vedere (p. 705) «forse la ricerca di una sfuggente identità europea può attendere, fintantoché i cittadini degli Stati nazionali s’impegnano a difendere nei singoli paesi i fondamentali, comuni principi europei di pace, libertà, democrazia pluralista e sovranità della legge; a preservare il livello di benessere materiale che è la precondizione di quest’impegno; e ad agire energicamente per rafforzare ovunque sia possibile i legami transnazionali di cooperazione e amicizia».

Un esempio paradigmatico di un progetto politico (neo)liberale: rispetto a molto di quel che si è soliti orecchiare oggigiorno, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, volendo tacere delle trame pechinesi e/o moscovite, sembrerebbe esserci più di una ragione di giubilo. Non può tuttavia sfuggire che i due pilastri del modello qui difeso (lo Stato nazionale e il livello di benessere materiale, ovvero l’economia (iper)capitalista) sono direttamente responsabili dei due fattori di crisi più distruttivi (di certo sul lungo, forse già sul medio termine) della postmodernità: il cambiamento climatico e le diseguaglianze. Specialmente se nato all’indomani del 1989, il lettore (europeo) interessato a comprendere da dove egli venga troverà ne L’Europa nel vortice un’informata e gradevole bussola: qualora la sua curiosità lo dovesse spingere tuttavia a domandarsi perché si sia arrivati a questo punto (e in questo modo), nonché dove andare a partire da qui e come, dovrà inevitabilmente volgersi altrove.

Ian Kershaw, L’Europa nel vortice. Dal 1950 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 770

Immagine: L’Italia e parte dell’Europa viste dallo spazio. Crediti: Gli elementi di questa immagine sono forniti dalla NASA. Viacheslav Lopatin / Shutterstock.com

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