Intervista a Vera Bugatti

Vera Bugatti è un’artista contemporanea che calibra minuziosamente ogni termine, ragiona ad alta voce, e insegue le sue stesse parole per dar loro una degna collocazione. Bresciana, classe 1979, considerata a furor di critica fra le stelle più luminose del firmamento dell’urban art, all’indomani del conseguimento della laurea in Conservazione dei Beni culturali a Parma, dopo aver lavorato come ricercatrice in ambito museale e bibliotecario, nel 2008 si è tuffata felina nel circuito della libera espressione artistica, riuscendo col tempo a sfondare il soffitto di cristallo e permeare con i suoi interventi i muri di tutto il mondo.

A dispetto di molti tuoi colleghi, non hai iniziato a dipingere in strada ricorrendo al writing selvaggio, influenzata dalla cultura hip pop che ha modellato e stimolato gli adolescenti degli anni Novanta. Il tuo è stato un percorso nettamente diverso

Sì. Quella per l’arte urbana è stata senz’altro una vocazione adulta. Più che una folgorazione, la considero un’idea insinuatasi lentamente in maniera quasi inconsapevole. Il primo pezzo è nato dall’asfalto, un’opera effimera realizzata a terra con i gessetti. Stavo preparando la mia tesi di laurea sul rapporto fra arte ed eresia nel XVI secolo, e pensavo a un futuro come ricercatrice. Spronata da un’amica mi sono trovata catapultata in un raduno di artisti madonnari. La notte trascorsa in loro compagnia mi ha stregata. Vincendo l’emotività, ho iniziato a viaggiare con la cassetta dei gessetti. Le opere sono diventate complesse e in seguito anamorfiche. Ho creato installazioni in molti luoghi in giro per il mondo. Infine, cinque anni, fa il passaggio alle grandi pareti.

Perché questa scelta?

È stato un modo per rendere durevoli quelle idee sparite con la prima pioggia. Ho scelto di passare dai pezzi effimeri ai muri parlanti. La poetica della caducità che mi aveva tanto affascinata agli esordi non era più sufficiente a contenere la necessità di lasciare memoria di me. «Nel mezzo del cammin di nostra vita…», credo fosse fisiologico.

A questo punto, la curiosità di sapere come sia nato il sacro fuoco dell’arte prende il sopravvento…

Fin da piccola ho sperimentato e inventato storie. Poi quel forziere si è trincerato dietro il timore di non essere all’altezza; in seguito, quando ha cominciato a voler uscire, era mitigato dalla paura di perdere quella magia, disperdendola ma soprattutto rendendola ordinaria. Forse la molla è stata il voler raccontare storie senza parlare e probabilmente il motore è stato il viaggiare, fisico – sfiancante – e metaforico al contempo, il desiderio di scoperta. Di più non so, mi piacerebbe usare la parola esigenza ma sarei più sincera parlando di fuga.

In te convivono armoniosamente due anime: quella di bibliotecaria e quella di artista

Le mie opere devono molto a questi mondi complessi ed eccezionali che sono i libri, attingono da quelle acque e poi lasciano scivolare le idee finché la realtà stessa diventa finzione, un do ut des. Per Borges tutte le cose del mondo conducono a una citazione, e Galileo ci presenta il concetto dell’universo come libro. Questa fascinazione ritorna nei miei pezzi e mescola l’onirico, altra fonte d’ispirazione, con l’attualità e le questioni sociali. Mi chiedo spesso, però, cosa percepiscano le persone. Se colgano le citazioni all’interno delle opere, se leggano i testi – sono prolissa, ovviamente – che le descrivono, se capiscano i giochi di parole dei titoli. Non dovrei mirare a raggiungere una sintesi efficace?

Be’, no. La tua è una galassia variegata, affollata da innumerevoli stimoli. Non a caso, definirti a livello artistico è praticamente impossibile. Lasci con garbo ogni definizione a chi passa e osserva, giusto?

Sì, perché non sono realmente in grado di definirmi a livello stilistico. Forse non mi preme farlo. Figurativo, d’accordo, ma c’è chi lo descrive come surreale, chi lo avvicina al realismo magico, chi al sacro contemporaneo, al panteismo, chi ne percepisce la vena malinconica. Molti trovano ogni mio pezzo inquietante, disturbante, a metà fra il salvifico e il grottesco. Vorrei credere che possa essere un riflesso di tutte queste cose, e contemporaneamente nessuna di esse.Immagine 0Vera Bugatti, Dissimilazione o del venire al mondo, installazione in luogo abbandonato (Lombardia) 2022 (foto per gentile concessione dell’artista)

Il linguaggio estetico della tua produzione punta su frammenti di attualità. Il risultato è una posizione sempre netta, come un graffio deciso

Un filo rosso lega nei miei pezzi turbamenti umani a temi sociali e alla vivibilità-invivibilità del pianeta; una poetica, declinata in ambiti diversi, che coniuga malinconia e speranza. In quest’epoca disorientata e fragile, mortificata da nuove intolleranze e proiettata verso nuove distopie, mi piace l’idea di tracciare elegie inquiete del tempo, parlare di transitorietà. Mi concentro sull’individuo e sulle componenti di un’identità frammentata, su una lotta che necessita di una grande forza di volontà. Sono la prima a smarrirmi. Ogni tanto ho bisogno di una eco forte che funga da contraltare rispetto ai grandi pezzi su parete, ai colori brillanti e alle tematiche attuali, una terapia intima che generi come scintille piccole opere monocrome e interrogative, soprattutto effimere.

A proposito di effimero: l’urban art è stata risucchiata nel tubo dei social in maniera radicale e spericolata. Il web ne è lo strumento più importante di diffusione. Disdegnarli sarebbe ridicolo. Tu che rapporto hai?

Di presenza e assenza. Ne riconosco il merito: le mie opere anamorfiche, per esempio, non sarebbero state conosciute da molti se non tramite il web. Spesso, però, ne sopporto a fatica l’invasività, e di conseguenza sparisco per un mese. Credo però che i social possano essere anche un mezzo potente di diffusione delle idee, di condivisione e resistenza. Il problema è riconoscere le fonti valide nel frastuono delle idee e mantenere uno spirito critico. Una rete è un supporto ma anche una trappola, nomen omen.

L’artista più di chiunque altro ha sempre avuto l’obbligo di schierarsi e farsi megafono delle nobili cause. La tua produzione artistica punta all’individuo e a tutto quel che lo circonda

Sono convinta che una delle finalità dell’opera d’arte, in un mondo di alibi, sia suggerire una responsabilità etica. Non è un obiettivo semplice e non pretendo molta attenzione, sono una goccia nel mare. Se questa goccia insieme ad altre genera delle correnti, allora ha un fine. Mi rendo conto, però, di non riuscire a raggiungere con intensità la critica sociale che vorrei esprimere. Sono conscia di essere ancora troppo ingombrante all’interno delle mie opere, che ci sia troppa “Vera” a fare da filtro ai messaggi, molta dissimulazione, tanta difesa.

Se Vera avesse la possibilità di intervenire e stravolgere, migliorare un aspetto della contemporaneità?

Per rispondere a questa domanda potrei intrattenerti per un’ora – immagino suoni come una minaccia, ma non lo è – o restare zitta.

E quindi?

Propenderei per la seconda, ma è giusto che faccia un tentativo che non sia un cortocircuito.

Prego…

Sarebbe un bel pretesto per parlare di pace nel mondo o per intervenire sul cambiamento climatico e sui mutamenti – ahimè non più impercettibili – che sta generando sul pianeta. Modificare questi aspetti non migliorerebbe purtroppo lo stato delle cose a lungo termine. Restando nel campo delle splendide utopie, andrebbe realmente stravolto l’atteggiamento umano, sostituendo la prevaricazione con l’uguaglianza, l’intolleranza con l’ascolto, il razzismo con l’intercultura, in ostinata controtendenza con l’oggi. Basterebbe mettersi, realmente, nei panni degli altri. Lo stesso col pianeta, se l’empatia fosse davvero percepita anche nei confronti della natura, non si assisterebbe a questo scempio. Detto questo, resto fortemente scettica su una reale possibilità di risveglio collettivo.

Senza alcun barlume di speranza?

Non voglio parlare di caduta ineluttabile, la speranza resta sempre e sarebbe terribile perderla. Forse servono meno parole e più azioni concrete. Magari, un potente effetto domino.

Immagine di copertina: Vera Bugatti, DE(ath)HORNING, Bromolla (Svezia) 2019 (foto per gentile concessione dell’artista)

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