L’eccidio delle Fosse ardeatine del 24 marzo 1944, in cui furono uccise 335 persone, nonostante l’unanime orrore, ha rappresentato a lungo un evento che ha diviso più che unire, ed è forse ancora oggi una frattura non del tutto ricomposta.

Quella dell’Ardeatina non fu né la prima né l’ultima strage nazifascista compiuta a Roma durante l’occupazione: dall’ottobre 1943 al giugno 1944, numerosissimi elementi della Resistenza furono fucilati a Forte Bravetta (oltre 70); nell’ottobre 1943 10 partigiani, autori insieme ad altri di un attacco a Forte Tiburtino, furono uccisi a Pietralata; nell’aprile 1944 10 donne furono ammazzate all’Ostiense per aver assalito i forni e nello stesso mese vi fu la strage di La Storta. Vi era stato nell’ottobre ’43 il rastrellamento del Ghetto, in cui 1.023 ebrei furono deportati ad Auschwitz, e moltissimi se ne sarebbero aggiunti in seguito; nel gennaio 1944 vi fu un’enorme retata in via Nazionale e nell’aprile una al Quadraro, un quartiere popolare dove la resistenza fu molto forte, con ulteriori deportazioni di centinaia di persone. Innumerevoli in quei giorni erano gli arresti, le torture e gli omicidi.

D’altra parte l’attacco partigiano del 23 marzo a via Rasella, in cui morirono 33 soldati occupanti e che scatenò la rappresaglia, non fu l’unico messo in atto dalla Resistenza, che a Roma iniziò il 10 settembre 1943, con la battaglia di Porta San Paolo (quasi 600 caduti), e che sarebbe proseguita durante tutta l’occupazione sia con azioni armate e uccisioni sia con atti di sabotaggio.

Tuttavia, da subito, il racconto dell’eccidio delle Fosse ardeatine assunse un carattere particolare, e quell’evento venne, in un certo senso, isolato dal contesto e manipolato, fino a farne ricadere la responsabilità sui partigiani quasi più che sui nazisti. Come ha ricostruito Alessandro Portelli nell’Ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (1999) – un libro che è una pietra miliare nella ricomposizione di quei fatti e nella loro successiva elaborazione – nel dopoguerra fu divulgata la falsa notizia che le forze occupanti avessero concesso, affiggendo addirittura manifesti per le strade, un ultimatum ai partigiani, i quali consegnandosi avrebbero potuto evitare la vendetta: un’evenienza inverosimile non soltanto per la mancanza di tempo intercorso tra l’azione e la reazione, ma anche solo considerando la totale passività con cui l’avrebbe appresa la popolazione (i parenti, gli amici, i compagni dei detenuti), e che però divenne un elemento costitutivo e assai tenace della memoria dell’eccidio.

I romani in realtà vennero a conoscenza della strage da un comunicato del comando tedesco propagato via stampa il 25 marzo, in cui si annunciava, mentendo, la fucilazione di «dieci comunisti-badogliani» per ogni morto tedesco e si informava che «l’ordine» era «già stato eseguito», senza che venissero indicati né il luogo, né il numero, né i nomi delle vittime, che poterono essere identificate solo a liberazione avvenuta: come emerso nei processi a loro carico, per i nazisti terrorizzare la popolazione civile era prioritario rispetto alla ricerca degli autori.

Alle Fosse ardeatine morirono persone con storie diversissime tra di loro, di tutte le età (i due più giovani avevano 15 anni, il più vecchio 74), ideologia (socialisti, comunisti, azionisti, anarchici), fede (cristiani, atei, circa 75 ebrei), estrazione sociale (operai, studenti, contadini, professionisti, venditori ambulanti, insegnanti, impiegati ecc.); furono prelevati detenuti comuni dalle carceri e rastrellati cittadini per la strada al solo scopo di fare numero; 39 erano i militari. Nessuno di essi aveva a che fare con l’azione di via Rasella e molti neppure appartenevano alla Resistenza.

I responsabili furono in seguito processati: Kappler, ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, fu condannato all’ergastolo (ma fuggì nel 1977 in Germania e morì l’anno successivo);  Priebke, capitano delle SS e aiutante di Kappler, arrestato in Argentina ed estradato in Italia nel 1995, fu condannato all’ergastolo nel 1998 e dal 1999 alla morte (2013) scontò gli arresti domiciliari; il feldmaresciallo Albert Kesselring, il generale Eberhard von Mackensen e il comandante Kurt Mälzer, coinvolti nella decisione della rappresaglia, furono condannati a morte (pena poi commutata in ergastolo).

Anche Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Carlo Salinari, Carla Capponi, Pasquale Balsamo, tra i gappisti di via Rasella, con Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer, responsabili militari locali rispettivamente socialista, comunista e azionista, che avevano approvato l’attacco, furono portati a giudizio negli anni Cinquanta e successivamente. Tuttavia, in sede sia civile sia penale la loro azione venne dichiarata «un legittimo atto di guerra».

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