Era il 15 giugno 1922 quando sulla rivista torinese Primo Tempo compariva per la prima volta Riviere, che sarebbe divenuta poi una delle poesie più importanti per Eugenio Montale, il quale la volle, infatti, in chiusura della prima edizione di Ossi di seppia, uscita nel 1925 per i tipi dell’appena ventiquattrenne Piero Gobetti.

E subito, nei sessantasei versi che la compongono, erompe assoluto e totalizzante il rapporto con il mare, che rappresenterà il perenne interlocutore del poeta, personificato, invocato, a volte fatto oggetto di timore reverenziale («Come allora oggi in tua presenza impietro, mare» recita il poemetto Mediterraneo, che compone la terza sezione di Ossi). E se in Riviere compare per l’unica volta l’osso di seppia, scarto del mare che dà il nome alla raccolta, la riviera ligure è lo scenario che si ripropone continuamente in ogni lirica, che fa da sfondo a ogni verso di quegli Ossi che sono, idealmente, il diario di un’estate trascorsa alle Cinque Terre.

E l’estate è l’altro tema fondamentale che attraversa la prima raccolta del poeta genovese: è la stagione del ricordo, prima di tutto, dell’infanzia rivissuta in modo quasi allucinato per via  «dell'afa che a tratti erompe dal suolo che si avvena», una delle tante estati di Monterosso legate alla condizione di primigenia innocenza contrapposta alla «malinconia di fanciullo invecchiato» che attanaglia l’età adulta. E d’altronde, se da più parti la critica ha interpretato Ossi come una risposta critica al modello dannunziano dell’Alcyone, è evidente che l’arsura soffocante e il paesaggio arido dell’estate montaliana «nel paese dove il sole cuoce / e annuvolano l’aria le zanzare» si pongono all’estremità opposta rispetto alla fresca e lussureggiante estate toscana della Pioggia nel pineto.

«Bruci / tu pure tra le lastre dell’estate, / cuore che ti smarrisci!», esclama il poeta in Minstrels, componimento che si rifà all’omonimo Preludio di Debussy – originariamente collocato in chiusura di Movimenti, prima sezione di Ossi, e cassato nelle edizioni successive.

E allora l’unica cura a questa distruzione è, ancora, il mare, con la sua  «legge rischiosa», ovvero «esser vasto e diverso e insieme fisso»; trovare, dunque, un compromesso tra la necessità di unità e di regola e l’anelito a conoscere, espandere i propri confini fino a esporsi al rischio di perderli del tutto: e qui sta la grande attualità della poetica di Montale, dove il mare sublima il conflitto tra identità e libertà.