26 maggio 2023

L’ideologia della paura, di Jacopo Di Miceli

 

Lady Diana è sospettamente morta in un incidente, è stata assassinata e – allo stesso tempo – vive nascosta in incognito in un paradiso tropicale. Bin Laden era già morto quando i marines hanno fatto irruzione ad Abbottabad ma ci sono le prove che stia ancora tramando, come infiltrato della CIA, attentati in giro per l’America. Quanto a Chávez (trapassato nel 2013), è dimostrabile il suo coinvolgimento nella sconfitta di Trump alle elezioni del 2020. Queste affermazioni non sono soltanto palesemente infondate (e assurde): sono contraddittorie. Il che significa, come già Aristotele non aveva mancato di osservare, che necessariamente una delle due deve essere vera e l’altra falsa. Il fatto che, invece, esse – e parecchie altre proposizioni dello stesso tenore – siano ritenute quanto meno plausibili, se non indubitabili fatti, da numerosi sostenitori di quelle che non senza una certa dose di snobismo si è soliti liquidare come teorie del complotto ne dimostra, questa volta sì incontrovertibilmente, la loro natura di ideologie. In quanto visioni del mondo, le ideologie non sono – non possono essere – falsificabili: o ci si crede (per poi magari pentirsene, fare abiura e diventare i più ardenti apostoli dell’ideologia opposta: è la storia di più di un ex comunista trasformatosi in profeta del liberismo) o non lo si fa. Questo spiega, tra l’altro, perché sia così difficile, in ultima analisi profondamente ingenuo, convincere a suon di statistiche un adepto alla teoria della sostituzione etnica della sua natura di spaventapasseri.

Le ideologie del complotto, come più correttamente dovrebbero essere chiamate, dunque, non sono – come troppo spesso si tende a dipingerle – stramberie figlie dell’ignoranza, relitti di un pensiero medievale che l’illuminismo e la scienza prima o poi (a quanto pare più poi che prima) spazzeranno via, il frutto di una mentalità superstiziosa o altra paccottiglia plebea. Sono, assai più prosaicamente e, a conti fatti, pericolosamente, una risposta alla crisi della rappresentanza politica dilagante nelle democrazie occidentali da quarant’anni a questa parte – paradossalmente una richiesta, in barba al mito dell’astensione quale spia del disinteresse e del nichilismo – di più politica e di più partecipazione. Sono, ancora, il tentativo di fornire un quadro mentale (un orizzonte interpretativo, se si vuole) di un mondo apparentemente uscito dai cardini ad un pubblico – non di rado con istruzione universitaria – che, per ragioni storiche, economiche e socioculturali ha perso confidenza con, o perso e basta, i suddetti appigli, una volta rappresentati in prima istanza dalle Chiese e dai partiti: non è un caso, dunque, che con l’eccezione di alcuni Paesi africani, per esempio il Congo, nei quali l’impatto del colonialismo occidentale è stato più devastante, nel cosiddetto Sud globale il radicamento delle teorie del complotto sia, per ora, meno diffuso che altrove (a partire dagli Stati Uniti), in virtù di strutture di solidarietà e di reti sociali che favoriscono, ancora, un senso di comunità sufficiente da fare da antidoto a quella solitudine che un’ormai ponderosa letteratura scientifica dimostra sia il terreno di coltura per eccellenza dei nuovi adepti alle teorie del complotto.

 

Queste brevi e sommarie considerazioni spiegano perché L’ideologia della paura di Jacopo Di Miceli sia un libro di grande importanza e degno della massima considerazione. Informato, agile nella prosa, sobrio ma lucido nei giudizi, quasi mai retorico e puntuale nell’analisi, questo saggio può a buon diritto essere considerato il primo volume di alta divulgazione su un tema, il complottismo, per l’appunto, che nei principali Paesi europei e in America è ormai da qualche tempo oggetto di studio accademico e che da noi, con evidenti conseguenze, continua ad essere derubricato come stramberia al confine tra il folklore e la sagra strapaesana.

Il volume si suddivide in una breve ma efficacissima introduzione, nella quale si procede a fare un po’ di chiarezza concettuale e terminologica intorno al campo semantico delle ideologie del complotto e si spiega perché tanto la critica del fenomeno in termini epistemologici quanto quella di taglio più pedagogico partano da premesse sbagliate e dunque non colgano nella sua interezza il problema che hanno di fronte. L’educazione, in altre parole, non basta a far fronte alle ideologie complottiste così come non era bastato alla Germania degli anni Trenta essere il Paese più colto d’Europa per impedire al partito nazista di affermarsi (per altro facendo uso di vocabolario e concetti che ancora adesso non è difficile rinvenire nella retorica dei più agguerriti alfieri dell’internazionale complottista, anche a casa nostra).

Il primo capitolo offre invece una interessantissima panoramica storica intorno alle origini della mentalità complottista in chiave comparativa e diacronica. Fatto notevole, questa carrellata parte non, come ci si aspetterebbe, dal Medioevo, ma dalla prima età moderna e in particolare dalle guerre di religione scatenatesi con la riforma luterana. Il motivo è semplice: la trasformazione della lotta politica in guerra ideologica – esistenziale – con toni apocalittici ed effetti polarizzanti, le cui conseguenze distruttive per la società e l’ordine internazionale forniscono un inquietante modello predittivo del futuro non troppo anteriore al quale le nostre comunità potrebbero presto andare incontro.

Come ogni introduzione che si rispetti, anche questa è poi propedeutica al secondo capitolo, incentrato sulla storia degli Stati Uniti dalla Mayflower a Trump, nel quale si rende conto del perché proprio «la più grande democrazia del mondo» sia divenuta l’incubatrice del complottismo contemporaneo, con il suo preoccupante salto di qualità da dibattito dietrologico a progetto di azione politica. Si scopre dunque che – udite udite – The Donald non è lo scarto di lavorazione impazzito di un sistema perfetto ma la conseguenza logica di una cultura e di un sistema sociale il cui ordinamento sembra essere sul punto di implodere sotto il peso delle proprie contraddizioni. Come ha acutamente osservato lo storico Timothy Snyder, il 6 gennaio non può essere considerato un punto di arrivo: si tratta al contrario di una finestra sul futuro.

Il terzo capitolo si concentra poi sui risvolti europei del fenomeno, partendo, insospettatamente, ancora una volta, dalla Germania e procedendo in una presentazione allo stesso tempo, per ovvie ragioni di spazio, di carattere esemplare ma niente affatto impressionistica, dei maggiori esponenti del complottismo contemporaneo in Francia, Olanda, Gran Bretagna, Europa orientale e – ovviamente – Italia.

Contrariamente a quel che il lettore sarebbe portato a sperare dopo trecentotrenta pagine di cavalcata attraverso le praterie di quello che si sarebbe volentieri inclini – sbagliando – a ritenere un delirio collettivo, la conclusione non offre alcuna panacea. L’autore, tuttavia, osserva opportunamente che la rinuncia da parte delle formazioni politiche a farsi promotrici non di visioni del mondo (anche violentemente) contrapposte – si chiamava un tempo agone politico e qualcuno usava persino il termine lotta di classe –, ma di variazioni sul tema di un’unica formula magica, quella del liberismo economico e del connesso darwinismo sociale, non poteva che produrre, in ordine, disillusione, frustrazione, rancore, rabbia e infine violenza. La riproducibilità tecnica della politica (con l’annesso corollario di esperti – di solito economisti – assurti al rango di sciamani con un dottorato), insomma, una strategia inizialmente pensata per attutire, se non eliminare, il conflitto sociale, ha prodotto il risultato opposto e la pretesa di essere entrati in un mondo post-ideologico ha lasciato campo libero a un’altra ideologia, quella per l’appunto della cospirazione e della conseguente lotta senza quartiere ai burattinai a capo di quest’ultima.

Scaricare tutte le responsabilità, per quanto enormi, sulla politica e sui politici sarebbe però sbagliato. Un sistema dell’informazione – anche pubblico – che in ossequio alle logiche di produttività ed utile figlie a loro volta dell’ideologia dominante spacciano una gazzarra per pluralismo ha contribuito in misura non indifferente, da un lato, alla crescente diffidenza dell’opinione pubblica nei mezzi di informazione, dall’altro all’ulteriore polarizzazione di un dibattito dal quale emerge inevitabilmente vincitore non chi ha gli argomenti migliori (fosse mai), ma chi urla più forte e chi riesce meglio nell’opera di demonizzazione dell’avversario.

La democrazia, recita il motto del Washington Post, muore nelle tenebre. Se è vero, come gli eventi degli ultimi anni sembrano incontrovertibilmente dimostrare, che le ideologie del complotto costituiscono, oggi, la minaccia più seria all’ordinamento democratico dell’Occidente (e non solo), è forse giunto il momento di iniziare a far luce sulle sue origini e sulle sue cause, onde cominciare a dotarsi degli strumenti, in primo luogo politici, per combatterlo sul suo stesso terreno, quello appunto dell’ideologia (ovvero della visione del mondo, del passato, del presente e del suo futuro).

 

Jacopo Di Miceli, L’ideologia della paura. Come il complottismo ha conquistato l’America e l’Europa, Busto Arsizio, People, 2023, pp. 363

 

Immagine: I sostenitori di Donald Trump in rivolta al Campidoglio degli Stati Uniti, Washington, DC (6 gennaio 2021). Crediti: Sebastian Portillo / Shutterstock.com

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