Hanno qualcosa di magnetico i tre racconti che compongono l’ultimo libro di Eshkol Nevo, Tre piani. Certo il magnetismo ha a che fare con l’idea portante - assegnare a ciascuna storia un’istanza freudiana (Es, Io e Super-Io) - e con le vicende narrate che toccano l’intimità più profonda dei protagonisti (vicini di casa nello stesso palazzo alle porte di Tel Aviv). Ma non solo. Il loro magnetismo ha a che fare anche con qualcosa di più impalpabile, qualcosa che ha la consistenza di un sussurro. È il tono da confessione che accomuna i tre racconti: un io che si rivolge a un tu, e per questo fa un uso sapiente e reiterato della prolessi e dell’anticipazione, usa il ritmo incalzante di chi vuole dire tutto e nello stesso tempo arrivare in fretta al punto centrale della storia. C’è chi scrive una lettera a un’amica, chi parla con la segreteria telefonica del marito ormai morto, chi dialoga con un amico scrittore che è lì davanti  senza che se ne senta la presenza: un amico che ascolta (o subisce) un lungo monologo.
La confessione è sempre affascinante e ci chiama in causa, perché nasce da qualcosa che conosciamo perfettamente: l’insopprimibile necessità di raccontare per comprendere e per rendere reale un fatto che ci è successo. O meglio: l’umana, inevitabile, esigenza di confessare un segreto a qualcuno. Il segreto di una violenza nel primo racconto, di una specie di tradimento nel secondo, di una rinuncia lacerante e di una riconciliazione impensabile nel terzo; ma più in generale di qualcosa che capiamo fin dall’inizio. Dice Dvora nel Terzo piano: «Qual è il più grande segreto che possiamo nascondere al mondo? Il segreto della nostra vulnerabilità». Lo nascondiamo finché non ci viene voglia di raccontarlo per liberarcene. La parola rende compatto e dà corpo a quello che consideriamo indicibile e che inizialmente non ha forma. La parola lo fa uscire fuori di noi e lo consegna al mondo, alleggerendoci di un peso.
Dvora siede davanti alla vecchia segreteria telefonica. C’è ancora il messaggio che aveva lasciato il marito morto. È a quel vecchio registratore che Dvora affiderà di volta in volta la sua confessione: «Ma dalla segreteria proveniva la tua vecchia voce. E quando hai finito di parlare si è sentito un bip, seguito da un lungo silenzio: un vuoto in attesa di essere riempito». Al centro della solitudine di ognuno di noi – e quelle che racconta Nevo sono tre solitudini – c’è sempre un vuoto che esige di essere riempito. Viene in mente quello che diceva David Foster Wallace: la parola risulta un mezzo insufficiente per comunicare la vita e quanto di misterioso si agita in ognuno di noi, eppure è l’unico mezzo a nostra disposizione. A costo di un paradosso: più parole usiamo, più accerchiamo l’inesprimibile senza riuscire a dirlo davvero, e più riusciamo a far sentire quel silenzio che ci vibra dentro, che ci accomuna gli uni agli altri, che ci fa essere umani. Il silenzio, d’altronde, è un tema caro a Nevo sin dal primo romanzo Nostalgia.
«È questo il problema dei segreti. Se non sai che esistono non ti infastidiscono. Ma se ti porgono un capo del filo, non puoi fare meno di tirarlo». Non puoi fare a meno di andare avanti. Quando si confessa un segreto, lo si confessa innanzi tutto a sé stessi, perché alcune situazioni ci mettono davanti all’inconoscibile: la parte di noi che ci era estranea, che era sempre stata in ombra.
Nel primo racconto parla un padre protettivo e attento. Quando il vicino di casa, a cui Arnon e la moglie sono soliti affidare la figlia Ofri, scomparirà per qualche ora con la bambina, Arnon verrà ossessionato dall’idea che l’uomo abbia usato violenza contro di lei. Poco importerà che le perizie dicano tutto il contrario. Il sospetto della violenza renderà violento e incauto Arnon.
Le nostre paure più profonde dicono qualcosa di noi. Le storie di Nevo sono storie di vite normali colte nella loro quotidianità, fin quando non succede qualcosa che costringe queste vite a una vera e propria inversione a U. Un momento nel quale i protagonisti si scoprono diversi da quelli che sono. In cui le nostre paure s’impossessano di noi finché non le impersoniamo. «Ti è mai capitato di avere la sensazione di vivere gli ultimi momenti della vita come la conosci?» dice Arnon alla fine della sua confessione all’amico.
È quello che succede anche a Hani nel secondo racconto. La sua solitudine di moglie e di madre, la sua segreta paura di impazzire e di essere tradita, la porta a tradire a sua volta il marito. Sarà un tradimento strano e straniante con il cognato (doppio perfetto dello sposo legittimo), uomo ideale che riesce a essere sempre completamente presente, calato in ogni gesto e in ogni azione, ma che sembra venuto dal nulla, con una scusa talmente avventurosa da sembrare inverosimile. Al terzo piano del condominio di Nevo, quello che la protagonista, Dvora, riesce a confessare è l’indicibile di molte famiglie: la mancanza di amore nei confronti di un figlio. Ed è come se dirlo consentisse una concreta possibilità per un nuovo e positivo inizio.
Il tono di chi si confessa è concitato, ma anche più consapevole del normale. Le voci di questi tre racconti sono quelle di tre antropologi che osservano la propria vita. Hanno uno sguardo interno e uno esterno: non solo agiscono, ma si raccontano per conoscersi e per giudicarsi. Eppure si rivolgono a un tu proprio per essere salvati dal loro stesso giudizio. Confessiamo un segreto anche per essere perdonati, ed è qui che i tre protagonisti si rivelano straordinariamente umani, davvero magnetici. «Se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia… L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce».
Eshkol Nevo, Tre piani, Neri Pozza, pp. 253

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