Pubblichiamo in esclusiva la traduzione italiana dell’articolo della sociologa Eva Illouz, apparso il 23 marzo 2020 sul sito del Nouvel Obsertaveur. Il gruppo di lavoro Storie virali fa qui una duplice eccezione: riprende un articolo già pubblicato altrove e rompe il formato standard della rubrica. L’articolo ci è parso di particolare interesse e vogliamo condividerlo con i lettori che ci seguono. Ringraziamo molto Eva Illouz per averci autorizzato la pubblicazione nell’Atlante Treccani.

Guardando il film ipnotico di Lars von Trier Melancholia, lo spettatore capisce gradualmente, tra il terrore e l’impotenza, che il mondo è sul punto di scomparire, destinato a entrare in collisione con il pianeta “Melancholia”. Alla fine del film, lo spettatore, paralizzato e affascinato allo stesso tempo, vede questo pianeta terminare la sua corsa schiantandosi sulla Terra. Dapprima apparso come un punto lontano nel cielo, il pianeta si ingrandisce per diventare, infine, un disco che invade tutto lo schermo al momento dell’impatto. Siamo tutti immersi in un evento globale di cui non abbiamo ancora compreso appieno la portata. In questo momento senza precedenti, ho cercato di trovare delle analogie e ho ricordato questa scena finale del film di Lars von Trier.

Una nuova realtà

È stato durante la seconda settimana di gennaio che ho letto per la prima volta un articolo che parlava di uno strano virus; era sulla stampa americana e vi ho prestato particolare attenzione perché mio figlio doveva partire per la Cina. Il virus era ancora a distanza, come il punto lontano di un pianeta minaccioso. Mio figlio ha annullato il viaggio, ma quel punto è diventato un disco e ha continuato la sua corsa inesorabile finendo per schiantarsi su di noi, in Europa e in Medio Oriente. Mentre cala il sipario sul mondo che conoscevamo, ormai tutti noi osserviamo pietrificati l’avanzata della pandemia.

Il Coronavirus è un evento planetario di una portata che facciamo fatica a comprendere, non solo in ragione del suo impatto globale, non solo alla luce della rapidità del contagio, ma anche perché le istituzioni, il cui potere colossale non era mai stato posto in discussione, sono state messe in ginocchio nel giro di poche settimane. L’arcaico universo delle epidemie devastanti ha fatto brutalmente irruzione nel mondo sanificato e sviluppato della potenza nucleare, della chirurgia laser e della tecnologia virtuale. Anche in tempo di guerra, i cinema e i bar underground hanno continuato a funzionare; ma oggi, le città affollate d’Europa, quelle che amiamo, sono diventate sinistre città fantasma e gli abitanti sono stati costretti a rintanarsi nelle loro case. Come ha scritto Albert Camus nel romanzo La Peste  «tutti questi cambiamenti, in un certo senso, sono stati così straordinari e si sono compiuti così rapidamente, che non è stato facile considerarli come normali e duraturi».

Dai trasporti aerei ai musei, è il cuore pulsante della nostra civiltà che si è fermato. La libertà, il valore cardine della modernità, è stata messa tra parentesi, non per via dell’ascesa di un nuovo tiranno, ma a causa della paura, una emozione che domina su tutte le altre. Da un giorno all’altro il mondo è diventato unheimlich, stranamente inquietante, svuotato di familiarità. I gesti più confortanti ‒ stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, mangiare insieme ‒ sono diventati fonte di pericolo e di angoscia. Nel giro di qualche giorno sono apparse nuove nozioni per dare senso a una nuova realtà: siamo tutti diventati specialisti dei diversi tipi di mascherine e del loro potere filtrante (N95, FPP2, FPP3, ecc.), conosciamo ormai la quantità di alcol necessario per un efficace lavaggio delle mani, sappiamo la differenza tra “soppressione” e “attenuazione”, tra Saint-Louis e Filadelfia ai tempi dell’influenza spagnola, e, naturalmente, abbiamo soprattutto preso familiarità con i rituali e le strane regole del distanziamento sociale. Effettivamente in pochi giorni è apparsa una nuova realtà, carica di nuovi oggetti, nuovi concetti e nuove pratiche.

Violazione del contratto con lo Stato

Le crisi rivelano le strutture mentali e politiche e, allo stesso tempo, sfidano le convenzioni e la routine. Una struttura è solitamente dissimulata, ma le crisi sono occasioni ineguagliabili per rendere visibili ad occhio nudo strutture mentali e sociali silenti.

La salute, secondo Michel Foucault, è l’epicentro della governance moderna (parlava, in questo senso, di biopotere). Attraverso la medicina e la salute mentale, affermava, lo Stato amministra, sorveglia e controlla la popolazione. In un linguaggio che egli non avrebbe utilizzato, potremmo dire che il contratto implicito tra gli Stati moderni e i cittadini si fonda sulla capacità dei primi di garantire la sicurezza e la salute fisica dei secondi.

Questa crisi mette in luce due elementi opposti: in primo luogo, il fatto che questo contratto, in numerose parti del mondo, è stato progressivamente violato dallo Stato che ha modificato la sua vocazione tramutandosi in un attore economico unicamente interessato a ridurre il costo del lavoro, ad autorizzare o favorire la delocalizzazione della produzione (quella dei farmaci necessari, tra le altre cose), a deregolamentare le attività bancarie e finanziarie, e a provvedere alle esigenze delle imprese. Il risultato, intenzionale o meno, è stata una imponente erosione del settore pubblico. E il secondo elemento è il fatto, evidente agli occhi di tutti, che solo lo Stato può gestire e superare una crisi di tale portata. Anche il mammut Amazon non può fare altro che spedire pacchi postali, peraltro, con grandi difficoltà.

Conseguenze zoonotiche

Denis Carroll, uno dei maggiori esperti globali di malattie infettive che lavora negli Stati Uniti per il CDC (Center for Disease Control), l’agenzia nazionale per la protezione della salute, dice che dovremmo aspettarci di vedere questo tipo di pandemie ripetersi spesso in futuro. E questo a causa di ciò che lui chiama “zoonotic fallouts”, vale a dire le conseguenze di un contatto sempre più frequente tra agenti patogeni di origine animale e umani ‒ un contatto causato dalla presenza sempre più importante degli esseri umani nelle ecozone, le quali finora erano fuori dalla nostra portata. Queste incursioni nelle ecozone sono spiegate dalla sovrappopolazione e dallo sfruttamento intensivo della terra (in Africa, ad esempio, l’estrazione di petrolio o di minerali si è sviluppata enormemente in regioni di solito scarsamente popolate dagli esseri umani).

È da almeno una decina di anni che Caroll e molti altri (tra cui, ad esempio, Bill Gates e l’epidemiologo Larry Brilliant, direttore della Fondazione Google.org) ci avvertono che dei virus sconosciuti minacceranno sempre più spesso gli esseri umani in futuro. Ma nessuno ci ha fatto caso. La crisi attuale è il prezzo che tutti noi paghiamo per la mancanza di attenzione da parte dei nostri politici: le nostre società erano troppo occupate a fare profitti, senza sosta, e a sfruttare la terra e il lavoro, sempre e ovunque. In un mondo post-Coronavirus, le conseguenze zoonotiche e i mercati cinesi di animali vivi dovranno diventare la preoccupazione della comunità internazionale. Se l’arsenale nucleare iraniano è strettamente controllato, non c’è motivo di non chiedere il controllo internazionale delle fonti di ricadute zoonotiche. La comunità imprenditoriale di tutto il mondo può finalmente rendersi conto che, per poter sfruttare il mondo, un mondo dovrà esistere.

L’economia o la vita? La salute, fondamento invisibile del mercato

La paura diffusa mette sempre in pericolo le istituzioni (i mostri politici del XX secolo hanno tutti usato la paura per spogliare la democrazia delle sue istituzioni). Ma la parte inedita di questa crisi è quanto essa sia infestata dall’“economismo”. Il modello britannico (poi abbandonato) consisteva inizialmente nell’adottare il metodo d’intervento meno intrusivo possibile, ovvero il modello di autoimmunizzazione (cioè la contaminazione) del 60% della popolazione ‒ un’opzione che equivaleva a sacrificare parte della popolazione in nome del mantenimento dell’attività economica. Germania e Francia avevano inizialmente reagito allo stesso modo, ignorando la crisi il più a lungo possibile. Come ha osservato l’editorialista italiano Giuliano da Empoli, persino la Cina, che calpesta i diritti umani, non ha usato l’“economismo” così apertamente come le nazioni europee, come criterio da prendere in considerazione nella lotta contro il virus (almeno all’inizio). Il dilemma è senza precedenti: sacrificare la vita di molte persone anziane e vulnerabili o sacrificare la sopravvivenza economica di molti giovani e indipendenti.

Non è senza ironia che sia il mondo della finanza, di solito arrogante e spesso inaccessibile, ad essere il primo a crollare. Dimostrando così che la circolazione del denaro nel mondo poggia su una risorsa che tutti noi abbiamo dato per scontata: la salute dei cittadini. I mercati si nutrono della fiducia come valuta per costruire il futuro, e si scopre che la fiducia si basa sul presupposto della salute. Gli Stati moderni hanno garantito la salute dei loro cittadini, hanno costruito ospedali, formato medici, sovvenzionato la ricerca medica e progettato sistemi di protezione sociale. Questo sistema sanitario è stato il fondamento invisibile che ha reso possibile la fiducia nel futuro, che a sua volta ha condizionato gli investimenti e le speculazioni finanziarie. Senza la salute, le transazioni economiche perdono il loro significato.

La salute è stata quindi data per scontata; e negli ultimi decenni, politici, centri finanziari e grandi aziende si sono accordati per promuovere politiche che hanno ridotto drasticamente i budget dedicati alle risorse pubbliche, dall’istruzione alla sanità, ignorando paradossalmente la misura in cui le aziende hanno potuto beneficiare di questi beni pubblici (istruzione, sanità, infrastrutture), senza pagare nulla. Tutte queste risorse dipendono dallo Stato e condizionano l’esistenza stessa degli scambi economici. Eppure, in Francia, negli ultimi vent’anni sono stati tagliati 100.000 posti letto negli ospedali (l’assistenza domiciliare non può compensare i letti dei reparti di terapia intensiva). Nel giugno 2019, i medici e gli infermieri del pronto soccorso hanno manifestato contro i tagli di bilancio che minano il sistema sanitario francese ‒ un riferimento mondiale ‒ fino a spingerlo sull’orlo del collasso.

Mentre scrivo queste righe, un collettivo di 600 medici annuncia l’intenzione di denunciare il primo ministro Edouard Philippe e l’ex ministro della Sanità Agnès Buzyn per la cattiva gestione della crisi (fino al 14 marzo non era stata intrapresa alcuna contromisura). Negli Stati Uniti, il Paese più potente del mondo, i medici si affannano a trovare maschere per proteggersi. In Israele, secondo un rapporto pubblicato dal ministero della Salute, nel 2019, il rapporto tra posti-letto ospedalieri e popolazione totale è sceso al livello più basso degli ultimi tre decenni.

La trasformazione essenziale del capitalismo

Netanyahu e i suoi successivi governi hanno trascurato il sistema sanitario per due motivi: perché Netanyahu è fondamentalmente un neoliberista che crede nella redistribuzione del denaro ricavato dalle risorse collettive ai ricchi, sotto forma di esenzioni fiscali; e perché ha ceduto alle richieste dei partiti ultraortodossi, suoi partner di coalizione, creando enormi carenze nel sistema sanitario. La miscela di solennità e isteria con cui è stata gestita l’attuale crisi ha voluto nascondere questa sorprendente impreparazione (mancanza di maschere chirurgiche, respiratori artificiali, tute protettive, letti, unità di cura adeguate, ecc.). Netanyahu e orde di politici di tutto il mondo hanno trattato la salute dei cittadini con una leggerezza intollerabile, non riuscendo a capire l’ovvio: senza salute non ci può essere economia. Il rapporto tra la nostra salute e il mercato è ormai diventato dolorosamente chiaro.

Il capitalismo come l’abbiamo conosciuto deve cambiare. La pandemia causerà danni economici incommensurabili, disoccupazione di massa, crescita lenta o negativa, e colpirà tutto il mondo ‒ con le economie asiatiche che probabilmente emergeranno più forti. Le banche, le imprese e le società finanziarie dovranno sostenere l’onere, accanto allo Stato, di trovare una via d’uscita da questa crisi e diventare partner per la salute collettiva dei cittadini. Una volta superata la crisi, esse dovranno contribuire alla ricerca, ai piani nazionali di preparazione alle emergenze e alle assunzioni in massa. Dovranno sostenere l’onere della ricostruzione economica, anche se questo sforzo collettivo genera pochi profitti.

I capitalisti hanno dato per scontate le risorse fornite dallo Stato ‒ istruzione, sanità, infrastrutture ‒ senza mai rendersi conto che le risorse di cui privavano lo Stato li avrebbero alla fine privati del mondo che rende possibile l’economia. Tutto questo deve finire. Per prosperare l’economia ha bisogno di un mondo. E quel mondo può essere costruito solo collettivamente, attraverso il contributo del settore privato al bene comune. Se gli Stati, da soli, possono gestire una crisi di questa portata, non saranno abbastanza forti da tirarcene fuori da soli: le imprese dovranno contribuire a mantenere i beni pubblici di cui hanno tanto beneficiato.

Le élites e il bottino di guerra

In Israele, nonostante un numero relativamente basso di morti (finora), la crisi del Coronavirus ha scosso profondamente le istituzioni del Paese. Come ha ripetutamente sottolineato Naomi Klein, i disastri sono opportunità per le élites di accaparrarsi il bottino di guerra e sfruttarlo al meglio. Israele ne è un vivido esempio. Netanyahu ha di fatto sospeso i diritti civili fondamentali e chiuso i tribunali (salvandosi così in extremis dal processo che lo attendeva). Il 16 marzo, nel cuore della notte, il governo israeliano ha approvato l’uso di strumenti tecnologici sviluppati dai servizi segreti dello Shin Bet per rintracciare i terroristi, al fine di localizzare e identificare i movimenti dei portatori del virus (e di quelli che potrebbero aver infettato). Ha eluso l’approvazione della Knesset, prevista dalla procedura, e ha adottato misure che nessun Paese ‒ anche i più autoritari ‒ aveva ancora adottato.

I cittadini israeliani sono abituati a obbedire agli ordini dello Stato in modo rapido e docile, soprattutto quando sono in gioco la sicurezza e la sopravvivenza. Sono abituati a vedere la sicurezza come un valido motivo per infrangere la legge e minare la democrazia. Ma Netanyahu e i suoi amici non si sono fermati qui: hanno messo fine alla formazione di commissioni parlamentari, attuando quello che alcuni commentatori e cittadini hanno definito un “colpo di Stato” politico de facto, privando il Parlamento della sua funzione di contrappeso dell’esecutivo, e respingendo i risultati elettorali che lo hanno messo in una situazione di minoranza. Il 19 marzo, un corteo legale di auto con bandiere nere, che protestavano contro la chiusura del Parlamento, è stato fermato dalle forze di polizia, per il solo motivo che questa aveva ricevuto l’ordine di farlo.

Tucidide, lo storico greco del V secolo a.C., scrisse questo a proposito della peste che devastò Atene durante il secondo anno della guerra del Peloponneso: «Quando il male si scatenò, gli uomini, non sapendo cosa sarebbe stato di loro, cessarono di rispettare la legge divina o umana» (La guerra del Peloponneso, cap. 2, 52). Crisi di questo tipo possono generare il caos, ed è in tali circostanze che spesso compaiono i tiranni. I dittatori prosperano sulla paura e sul caos. In Israele, commentatori molto rispettati considerano la gestione della crisi da parte di Netanyahu come un esempio di tale cinico sfruttamento del caos e della paura per cambiare i risultati elettorali e mettersi al di fuori della portata della legge. In questo modo, Israele sta attraversando una crisi che non ha equivalenti altrove: sanitaria, economica e politica allo stesso tempo. In momenti come questi, è fondamentale avere fiducia in coloro che ricoprono cariche pubbliche, e una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana sta perdendo del tutto fiducia nei suoi rappresentanti, sia nel ministero della Salute che negli altri rami dell’esecutivo.

Il trailer del nostro futuro?

Ciò che si aggiunge al senso di crisi è il fatto che la pandemia richiede una nuova forma di solidarietà attraverso il distanziamento sociale. È una solidarietà tra generazioni, tra giovani e anziani, tra qualcuno che non sa di essere malato e qualcuno che può morire per ciò che il primo non sa, una solidarietà tra qualcuno che può aver perso il lavoro e qualcuno che potrebbe, invece, perdere la vita.

Sono stata confinata per diverse settimane e l’amore che i miei figli mi hanno dimostrato è consistito nel lasciarmi sola. Questa solidarietà richiede isolamento e frammenta il corpo sociale nelle sue unità più piccole possibili, complicando le nostre organizzazioni, i nostri incontri, le nostre comunicazioni ‒ al di là delle innumerevoli battute e video scambiati sui social network.

Stiamo sperimentando una socialità sostitutiva: l’uso di Internet è più che raddoppiato; i social media sono diventati i nuovi salotti; il numero di barzellette sul Coronavirus che circolano sui social in tutti i continenti è senza precedenti; il consumo di Netflix e Amazon Prime Video è letteralmente esploso; gli studenti di tutto il mondo ora frequentano corsi virtuali attraverso “Zoom”. Insomma, questa malattia, che ci costringe a rivedere completamente tutte le categorie conosciute di socialità e di cura, è anche la grande festa delle tecnologie virtuali. Sono convinta che, nel mondo post-Coronavirus, la vita virtuale a distanza avrà conquistato una nuova autonomia ‒ ora che siamo stati costretti a scoprirne le potenzialità.

Usciremo da questa crisi, grazie all’eroico lavoro di medici e infermieri e alla resilienza dei cittadini. Molti Paesi ne stanno già uscendo. La sfida sarà quella di gestire il periodo postpandemico traendo delle buone conclusioni: lo Stato, ancora una volta, si è dimostrato l’unico soggetto in grado di affrontare crisi di questa portata. L’impostura del neoliberismo è ormai evidente e deve essere denunciata, forte e chiaro. Il tempo in cui tutti gli attori economici erano presenti soltanto per “riempirsi le tasche” deve finire una volta per tutte. L’interesse pubblico deve tornare ad essere la priorità della politica pubblica. E le imprese devono contribuire a questo bene pubblico, se vogliono che il mercato rimanga un possibile quadro di riferimento per le attività umane.

Questa pandemia è come un trailer di un film che ci dà un’anteprima, un assaggio di quello che può succederci se compaiono virus molto più pericolosi e se il cambiamento climatico renderà il mondo non redditizio. In tal caso, non ci sarà alcun interesse privato o pubblico da difendere. Contrariamente a coloro che prevedono una recrudescenza del nazionalismo e un ritorno delle frontiere, credo che solo una risposta internazionale coordinata possa aiutare ad affrontare questi rischi e pericoli senza precedenti. Il mondo è irrevocabilmente interdipendente e solo un contributo di questo genere può permetterci di affrontare la prossima crisi. Avremo bisogno di un nuovo tipo di coordinamento e cooperazione internazionale, per impedire future ricadute zoonotiche, per studiare le malattie, per innovare nel campo delle attrezzature mediche e della ricerca e, soprattutto, dovremo reinvestire la considerevole ricchezza accumulata dai privati nel bene comune. Questa è la condizione per avere un mondo.

Immagine: Un soldato francese pattuglia una strada cittadina deserta, Strasburgo, Francia. Crediti: JethroT / Shutterstock.com

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