Leggere Il ramo d’oro di James Frazer è un’esperienza allo stesso tempo travolgente, frustrante e debilitante. Frutto più maturo dell’erudizione ottocentesca e del colonialismo avanzato, il magistrale saggio, sia che lo si affronti nella sua versione brevior sia nell’interezza intimidatoria dei suoi dodici volumi, si presenta come una collezione pressoché infinita di usi e costumi di popoli sparsi ai quattro angoli del mondo in un vortice tassonomico che dà facilmente la vertigine. Ma cosa si capisce al termine della lettura – per i pochi che ci arrivano – di un saggio del genere. La domanda non è oziosa: capire è infatti diverso da imparare. Benché la tesi centrale dell’opera sia chiaramente formulata dall’autore (si tratta di una ricerca intorno all’origine di un rito della fertilità che secondo Frazer sarebbe alla base, in buona sostanza, dell’esperienza religiosa umana), la debordante comparazione di cui Il ramo d’oro è pervaso lascia infine il lettore con l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di simile ad una collezione di farfalle o di rarissimi francobolli: un oggetto indubbiamente prezioso e ricercato, ma in fin dei conti sterile.

Altra cosa è la generalizzazione: essa stessa basata inevitabilmente sul metodo comparativo, ambisce tuttavia non ad una tabulazione dell’intero esistente (come nell’ottica della cultura del suo tempo si proponeva Frazer), ma all’acquisizione di principi, se possibile validi indipendentemente dal tempo e dal luogo in cui si situa un determinato caso di studio. Si tratta, detto altrimenti, di penetrare la moltitudine del fenomeno e di accedere infine, se possibile, alla struttura di esso.

La nuova scienza dell’universo incantato, l’ultimo libro – un vero e proprio lascito spirituale – del celeberrimo antropologo Marshall Sahlins si fonda proprio sul concetto di generalizzazione nell’intento di rintracciare i fondamenti di quella che il sottotitolo chiama, con un’audacia che è appannaggio solo dei più grandi tra i grandi, un’antropologia dell’umanità, solo in parte mitigata da una sorniona parentesi (quasi tutta).

Il titolo di questo strabiliante saggio è vichiano e del filosofo riprende un assunto centrale sul quale l’intera trattazione – e gran parte della ricerca dello stesso Sahlins nel corso dei decenni – si basa: verum ipsum factum. Ciò che esiste, ciò che si vede, quello che un popolo esperisce, è ed è vero, non un mito o una razionalizzazione di fenomeni inspiegabili e neppure la proiezione in re di strutture sociali o psicologiche.

Ciò significa, a voler essere spicci, mettere sotto accusa l’intero edificio delle scienze sociali e dell’antropologia in particolare, dal momento che queste ultime hanno immancabilmente preso le mosse per la propria analisi da presupposti che, Sahlins sostiene, non sono e non sono mai stati quelli delle società o degli individui che si cercava (e spesso ancora si cerca) di studiare, soprattutto non appena si mette piede fuori dal confortante recinto del mondo europeo – il che in buona sostanza significa l’antropologia qua ipsa, poiché tale disciplina nasce proprio a partire dallo studio dell’altro, per antonomasia chi europeo non è.

L’equivoco di fondo, argomenta l’autore in un’appassionata introduzione, risiede nel fatto che a partire per lo meno da Aristotele, la cultura nella quale l’antropologia e la sociologia (ma lo stesso si potrebbe dire di psicologia, economia e scienze storiche in generale) si sono formate è una cosmologia della trascendenza, ovvero un universo categoriale che concepisce il divino, comunque inteso, come distintamente separato dal mondo e superiore ad esso. Da qui una prima, fondamentale dicotomia, quella tra mondo naturale e regno sovrannaturale, alla e dalla quale seguono svariate altre (natura e cultura, per esempio), che hanno guidato lo studio del mondo e dell’uomo per secoli, in misura progressivamente scientifica – o così ci si è detto – a partire all’incirca dal XVI secolo: il che non stupisce più di tanto in quanto è proprio in questo torno d’anni che l’espansione europea attraverso il globo fornisce il contesto per lo sviluppo di uno degli assiomi fondamentali dell’antropologia di ogni tempo, ovvero lo studio dell’altro quale mezzo per capire se stessi.

Il problema è che, per millenni (e in alcune aree del mondo ancora adesso), il concetto stesso di trascendenza non rientra(va) nelle categorie mentali della maggior parte dell’umanità. A farla da padrone era – è – invece un’ontologia radicalmente immanentista, all’interno della quale non vi è né vi può essere alcun distinguo tra terra e cielo, tra mondo divino e mondo umano. L’universo è incantato e l’uomo vive circondato da forze che egli chiaramente percepisce e con le quali interagisce anche se non può sempre vederle e dalle quali, in buona misura, dipende. Tracce di tale visione del mondo (e del nostro posto in esso) sono ancora distintamente percepibili, commenta sagace Sahlins, in affermazioni del tipo «La compagnia telefonica mi ha fregato», dal momento che quest’ultima, a conti fatti, non esiste (per lo meno non nel senso in cui esiste l’utente impegnato nella lamentela) eppure è capace, eccome, di azione e dotata di una distinta presenza.

Che l’immanentismo costituisca il prius noetico e sociale dell’umanità nella sua interezza è dimostrato da Sahlins in una strabiliante analisi comparata di quella che si potrebbe chiamare la teologia delle antiche società mesopotamiche del III millennio a.C. da un lato e degli Inuit groenlandesi dall’altro. La scelta di questi ultimi quali termine di paragone è particolarmente scaltra poiché, in virtù del loro pressoché totale isolamento fino almeno all’apparire degli esploratori danesi alla fine del XX secolo, non è possibile sostenere che le istituzioni culturali e le credenze di tali gruppi siano frutto, come spesso si è teso a ritenere, di non meglio specificate influenze e processi di acculturazione.

I risultati del raffronto sono sconvolgenti (per lo meno per chi ancora si ostini a guardare al mondo, specie a quello altrui, con i propri occhi): come rendere conto, infatti, di somiglianze innegabili nell’organizzazione della società celeste in due compagini umane altrimenti agli antipodi sotto pressoché ogni punto di vista? La risposta di Sahlins è allo stesso tempo prevedibile e disarmante. Tutta la documentazione di cui disponiamo sembra suggerire che l’evoluzione della cultura abbia proceduto nella direzione opposta rispetto a quanto ci si sia abituati a ritenere. Gli dei – e con essi molto dell’ordine sociale – giunsero alle grandi civiltà della Mesopotamia, del Latinoamerica, della Cina o dell’Egitto dai cosiddetti barbari e quasi mai viceversa.

Le dimensioni relativamente ridotte del volume (meno di duecento pagine di testo) non rendono giustizia della vastità infinita del respiro dell’indagine di Sahlins, la quale spaziando attraverso un repertorio sterminato di letteratura secondaria e sulle basi della propria, magistrale esperienza sul campo accompagna il lettore in un viaggio non meno avvincente di quello di Frazer con in più il valore aggiunto di rinunciare al collezionismo per attaccare alla radice la questione di cosa significa studiare l’uomo e il mondo nel quale egli, per secoli, ha saputo (e non creduto) di vivere.

Il 5 aprile 2021 Marshall Sahlins è morto alla veneranda età di 91 anni, con il manoscritto de La nuova scienza pressoché – per quanto non interamente – ultimato. Al di là di una produzione scientifica impressionante e di un magistero seminale, quel che di più duraturo resta di questo straordinario studioso è probabilmente condensato nella frase con cui il volume si chiude. Dopo cinquecento anni buoni è forse tempo per il mondo civilizzato di prendere sul serio (e dunque di adattarsi) alle pratiche culturali degli altri.

Marshall Sahlins, con Frederick B. Henry Jr., La nuova scienza dell’universo incantato. Un’antropologia dell’umanità (quasi tutta), Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 212

Immagine: Graffiti preistorici nella grotta Magura. Crediti: pixtura / Shutterstock.com

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