Quelli che mi lasciano proprio senza fiato

sono i libri che quando li hai finiti di leggere

e tutto quel che segue vorresti che l’autore

fosse un tuo amico per la pelle e poterlo

chiamare al telefono tutte le volte che ti gira

(J.D. Salinger, Il giovane Holden)

La penultima illusione, di Ginevra Bompiani, è un autoritratto sincero e prezioso e la bellissima storia di un ma_d_rimonio («Forse succede dopo qualsiasi rottura, anche di quello che magari potremmo chiamare un ‘ma_d_rimonio’», p. 140) che si intreccia, in un gioco di ricordi che attraversano il tempo, a una vita vissuta pienamente, con la grazia e la delicatezza di chi la affronta in punta di piedi («Forse quel che mi piace è l’inclinazione verso quel che non si è. Come se ci fosse in noi sempre qualche difetto che l’illusione può correggere. E proprio in quello slancio verso l’altro si rivelasse la bellezza e anche la giustizia. Lo stesso movimento cerco in ogni aspetto dell’animo, delle inclinazioni, delle capacità umane. Una specie di misura aurea, titubante, che incarna non la perfezione, ma l’esitazione suprema, il magnifico dubbio, che ci salva dalla hybris, dall’arroganza della fede», p. 45).

Ginevra Bompiani ci insegna tante cose, continuando senza sosta a impararle lei stessa («Passo la giornata a insegnare e imparare, imparare e insegnare. Imparare a gestire una ragazza di diciotto anni, imparare un mondo abissalmente diverso dal mio, insegnare un mondo abissalmente diverso dal suo, esercitarmi nella fiducia, nella pazienza, nella discrezione. Nel mandare messaggi d’affetto senza capire se tornano indietro», p. 34); misura ogni parola («Non sono la mamma, ma una mamma, per aspetto e posizione», p. 14), ogni pensiero («Poiché mi piace condividere la precisione di quel che penso, quando parliamo di Dio premetto sempre: se c’è…», p. 14), ogni sentimento, sensazione, atto («Impaesamento, come lo vedo io, è un lento processo di appartenenza, un esercizio di somiglianza», p. 18); confessa, come molte persone lontane dagli incasellamenti anagrafici e di ogni tipo, il suo posto nel mondo, il suo particolarissimo modo di attraversarlo, da sempre («Ho sempre creduto di essere una donna di trent’anni», p. 15).

La penultima illusione è una storia di bellezza («E dunque la bellezza, che mi sembra così essenziale alla nostra vita e cultura, non avevo modo di spiegarla o trasmetterla, soltanto indicarla, sperando che alla fine si rivelasse da sola. Potevo mostrarle cose che consideravo belle e cose che consideravo brutte, sperando che scattasse una qualche analogia. O meglio, un contagio», p. 19), di libertà («Ma forse quel “come gli pareva” per lei non è un oltraggio, è un sogno», p. 21), ma anche di fragilità («Nell’infanzia, la fragilità fu il mio rifugio», p. 26) e inadeguatezza («Mia madre, la perfezione, la regina ridente della casa», p. 28) di fronte a modelli che compaiono tra le pagine in un gioco sempre vivo di contrasti («Così erano mia madre e Selle: una la luna, l’altra la terra», p. 28; «La nonna Antonietta era alta e magrissima, Selle tonda come una botte di vino. La nonna era sorda, Selle sonora», p. 29).

In questa vita così piena, si affaccia, come in quelle di tutti noi, la pandemia («In questi tempi del Coronavirus (che intanto, subdolamente, è cominciato), ogni giorno ci tolgono qualcosa», p. 51) e per chi nella sua esistenza è stata sempre guidata dalla forza delle illusioni («Mi rimetto al lavoro per costruire una nuova illusione. Ho poca resistenza alla sventura. Devo subito trovare la via di fuga, non sono capace di riconoscere la sconfitta e accettarla», p. 31), dalla loro fugacità («Io sono incapace di una briciola d’indifferenza e di fiducia. Capace solo d’illusione. Ma se il vento dell’illusione cade, io cado con lui nella bonaccia. Scrivere è il mio modo di soffiare sulla vela», p. 71) e, soprattutto, dal pensiero affettivo («Io posso portare la mia vita a testimonianza e, in queste pagine, smettere di cercare vani ragionamenti per capire perché ho fatto questo o quello, perché mi trovo qui, visto che tutte le mie scelte furono per amore e la mia vita è stata così sbieca, così sghimbescia, così ineluttabile, e insieme così dritta o, come dice Emily Dickinson, così quasi dritta», p. 130), non può che apparire chiaro, sin da subito, che perderemo un pezzo in questi tempi di sentimenti contingentati e di azioni circoscritte («La velocità con la quale i cittadini si sono adeguati alla ‘distanza di sicurezza’, ti fa pensare che non vedevano l’ora di lasciarsi. E ti domandi: ma il virus se ne andrà in tempo perché riprenderemo i nostri gesti?», p. 52).

Sfogliando e leggendo queste pagine, nelle mille storie che si intrecciano e tra i volti, le menti, le parole più care del nostro Novecento (Pasolini, Volponi, Morante, Calvino, Manganelli), non si può non pensare a quanto sia bella l’approssimazione, quanto sia bella la lentezza, la pienezza di un animo sempre misurato dal quasi  («A me la vita si presenta come una serie di occasioni afferrate e perdute», p. 179) e lontano dal pressapochismo che, invece, ci ruba sempre più le nostre giornate, il nostro tempo. Restiamo ammaliati dai racconti di Ginevra e della sua editoria («universo comprensivo», «universo amoroso»), dal suo tocco leggero («Forse è sempre così: alla fine è sempre un figlio quello che cerchi, in ogni amore, in ogni azzardo creativo», p. 290), ma allo stesso tempo tagliente, acuto, sincero, sorridente («Cominciai a pensare che sarebbe stato il momento di prenderla a nottetempo, secondo la mia prima riflessione nel veder sbucare dalla libreria la testa di Harry Potter», p. 273).

La storia di Ginevra Bompiani è una di quelle storie di chi è sempre in viaggio, ma soprattutto senza confini: nel suo essere una madre («Nessun figlio è uscito dalla mia pancia, ma tanti, come ad Atena, dal mio cervello», p. 289); nel suo lavorare tra i libri («La vita in una casa editrice di medie dimensioni, la Bompiani aveva circa cinquanta dipendenti, è una vita comunitaria. L’argomento comune è il libro, e non è come parlare di scarpe, ma un parlare di lavoro che è parlare di sé e della vita. Il libro si fa tutti insieme, ognuno con un occhio a quello che fa l’altro», p. 90); nella sua esperienza politica dall’«andamento sentimentale e intermittente» (p. 160); nella sua tensione verso gli altri e l’altro («Non bisogna dare un nome ai rapporti, sono quello che sono», p. 317).

La penultima illusione è una storia che affascina, come i Narcisi («Hanno la fuga incorporata nella bellezza, un tratto irresistibile», p. 316) e come lo slancio indispensabile di tutti gli inizi, di tutte le cose che pensiamo di avere, ma spesso non afferreremo mai («L’illusione racconta le storie. Con tutta la possibile onestà. L’illusione le sorregge, fino al congedo. Non l’ultima illusione, ma la penultima», p. 319).

Ginevra Bompiani, La penultima illusione, Feltrinelli, 2022, pp. 324

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