Solo grazie ai soldi di una prostituta la piramide di Cheope poté essere edificata: il faraone, infatti, «vedendo esaurirsi i fondi necessari alla costruzione della sua piramide, in un disperato tentativo di far quattrini mandò la figlia a lavorare in un bordello, incassando tutto ciò che la ragazza guadagnava». L’aneddoto del pettegolo Erodoto è uno dei tanti ripresi da Vern Leroy Bullough nella sua Storia della prostituzione. Dall’antichità agli anni Sessanta, scritta nel 1964 e appena riedita in Italia da Odoya (pag. 314, € 20,00), mentre la prima edizione nostrana risale al 1967 per dall’Oglio editore. Tra saggio di costume, e costumi sessuali, e documentazione storica, il libro tratta il “mestiere più antico del mondo” in modo così serio e dotto da suscitare, talvolta, comicità involontaria, ma l’intreccio lubrico di religioni, politica e letteratura funziona.

Da subito, lo scrupoloso autore non nasconde le proprie difficoltà di definizione e inquadramento del tema perché, ad esempio, in alcuni paesi ed epoche, «l’elemento retributivo non è essenziale. In tal caso la prostituzione potrebbe anche essere definita come la semplice prestazione del proprio corpo a rapporti sessuali promiscui». Ma anche qui: chi quantifica la soglia del vizio? «Per san Gerolamo prostituta era colei che aveva rapporti intimi con molti uomini... Ci fu poi chi scrisse che prostituta era colei che frequentava dai quaranta ai sessanta uomini, mentre vi fu addirittura chi affermò che non si poteva chiamare “meretrice” un donna se questa non aveva avuto rapporti intimi con almeno ventitremila uomini». Dopo il discorso sul metodo, si arriva alla narrazione storica; tuttavia, il saggio affronta le macroaree geografiche e culturali più che seguire una scansione cronologica, approdando infine, nel capitolo «Letteratura e censura», a un bell’excursus sulle più celebri meretrici della finzione, da Moll Flanders a Nanà.

Zigzagando nei secoli e nelle diverse civiltà, si scoprono le prostitute temporanee dell’antica Mongolia e quelle ingaggiate giornalmente, o per lunghe tenute di caccia, dagli Indiani d’America. Tra i Sumeri, cioè 1700 anni prima di Cristo, il divorzio era legale, mentre la prostituzione sacra era molto diffusa nei popoli antichi, da Babilonia alla Siria, dall’Egitto a Israele: persino nella Bibbia compaiono storie di illustri meretrici, quali Tamara e Maria Maddalena. Eppure, è presso i Greci che le lucciole, almeno le etère, godettero di fama e prestigio, istruzione e filosofiche frequentazioni, tutti privilegi preclusi alle altre donne, mogli innanzitutto: oltre alle leggi di Atene, Solone si premurò di promulgare quelle sulle case di piacere, senza contare le dive concubine come Aspasia, favorita e poi consorte di Pericle; Frine, scagionata da un processo grazie alle sue grazie; Clessidra «che si concedeva a ore». Tolta l’allure mistico-erotica, i pragmatici Romani trattarono la prostituzione come un mestiere, «un mestiere necessario, ma le donne che lo esercitavano erano prostitute, non sacerdotesse dell’amore o fari della cultura». E i bordelli, nell’Urbe, sorgevano accanto al Circo Massimo, come a dire: dopo il sangue, viene il sesso, o il sangue fa sesso.

Meno pruriginose e intriganti sono, poi, le pagine dedicate a meretricio e «grandi religioni». Il fervoroso Agostino pregava: «Datemi la castità… ma non ancora»; intanto, altri padri della Chiesa accettavano la prostituzione come un «male necessario». Nel mondo islamico, poi, si diffuse l’usanza del «matrimonio temporaneo, chiamato mut’a, che in effetti non è che una forma di prostituzione legalizzata». Si giunge così «sul finire del Medioevo», epoca in cui «la prostituzione fioriva in quasi tutte le più grandi città d’Europa… Molte città seguirono l’esempio di Torino, ordinando che le prostitute venissero buttate fuori dalle Chiese dopo il tramonto; poche seguirono invece Brunswick, che mise tutte le prostitute sotto il controllo del boia cittadino».

Nel Vecchio Continente delle grandi monarchie non poche cortigiane tentarono con successo la scalata sociale, diventando le favorite del sovrano senza troppo pudore né peloso moralismo: addirittura il padre della Marchesa di Pompadour, l’amante di Luigi XV nonché la più potente donna di Francia del XVIII secolo, «non nutriva alcun falso orgoglio sulla sua posizione e di solito si autodefiniva il “padre della sgualdrina del re”». Altro che figliol prodigo: da Cheope a Monsieur Pompadour sono state le figlie scostumate a fare la fortuna e la felicità dei padri.