Il destino dei rinoceronti bianchi settentrionali (una delle due sottospecie del rinoceronte bianco africano, il Ceratotherium simum) sembrava segnato per sempre con la morte dell’ultimo maschio, di 45 anni, nella riserva di Ol Pejeta Conservancy in Kenya nel marzo di quest’anno; l’esemplare, di nome Sudan e morto per le conseguenze di un’infezione, viveva insieme a due femmine anch’esse anziane e non più in grado di avere cuccioli, e ha trascorso gli ultimi anni guardato a vista per impedire che fosse vittima di qualche bracconiere.

Insieme alla perdita di habitat, il bracconaggio è infatti uno dei principali motivi della drastica diminuzione del numero di questi animali: al corno di rinoceronte alcune credenze attribuiscono proprietà curative contro l’epilessia e la febbre, nonché poteri afrodisiaci, ed è ricercato anche per i manici dei coltelli. Un corno, che pesa fino a 5-6 kg, può raggiungere un valore di 90.000 dollari al kg: e questo spiega come si sia passati dai 2000 esemplari di rinoceronte bianco settentrionale ancora presenti negli anni Sessanta alle poche unità degli anni Duemila. Del rinoceronte bianco, una delle due specie di rinoceronte africano – che in realtà non è affatto bianco ma deve il suo nome a un fraintendimento del temine afrikaans wydt (“largo” e non “bianco”) – esiste anche un’altra sottospecie, quella meridionale, molto simile e più consistente numericamente: proprio i ‘cugini’ meridionali potrebbero rivelarsi risolutivi nel tentativo di far nascere nuovi cuccioli settentrionali.

Un gruppo di ricercatori, che ha pubblicato i risultati di uno studio su Nature communications, sta cercando di applicare le tecniche di fecondazione in vitro già sperimentate su cavalli e bovini anche ai rinoceronti; sono stati prelevati ovociti da femmine della sottospecie meridionale, poi fecondati dallo sperma raccolto in precedenza dai pochi maschi settentrionali ancora in vita e crioconservato: è stato possibile coltivare gli ovociti fecondati fino ad arrivare ad ottenere blastocisti di rinoceronte, la fase iniziale dell’embrione, che potrebbero essere impiantati in madri surrogate della sottospecie meridionale. In questo modo, almeno la metà del patrimonio genetico settentrionale sarebbe preservata, anche se le incognite sono molte ed è la prima volta che queste procedure vengono applicate ai rinoceronti.

I ricercatori vorrebbero però tentare di recuperare gli ovociti dalle due femmine settentrionali superstiti, per poter ottenere embrioni ‘puri’, ma hanno anche preso in considerazione l’ipotesi di servirsi di cellule staminali; grazie a una tecnica recente, le cellule della pelle provenienti da vari esemplari e crioconservate, potrebbero essere infatti ricondotte al grado di cellule iPS (cellule staminali pluripotenti indotte), le quali a loro volta possono differenziarsi in diversi tipi cellulari, compresi i gameti. Fino ad ora soltanto nei topi si è riusciti a indurre le cellule staminali a svilupparsi in ovuli e spermatozoi, ma percorrere la stessa strada con i rinoceronti potrebbe aprire nuove possibilità anche per altri animali e contribuire a riparare ai danni prodotti dall’uomo anche su altre specie.

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