La grandezza di un narratore risiede spesso nella sua capacità di mutare la propria voce in quella di Sherazad, di declinare timbro e cadenza come se il proprio io (“il pronome più schifoso”, scriveva Gadda) nulla fosse rispetto al flusso infinito delle storie, che prorompono dal suolo con la forza incontenibile di una corrente sotterranea che trova finalmente la via per emergere alla luce del sole.
Perdere sé stessi, dunque, per recedere ad una forma del narrare più originaria, ad un tempo che in una certa misura è la scaturigine del narrare, un istante nel quale esso è mitologema, fusione di mythos e logos totalmente svincolata dalla costrizione esteriore del mondo proprio perché capace di trovare, nella necessità interiore, la propria assoluta libertà.
Ed è un mito a tutti gli effetti quello che Israel Singer, fratello del più celebre Isaac, fa sgorgare in Yoshe Kalb, romanzo del 1932 che Adelphi pubblica sulla scia dell'incredibile successo riscosso nel 2013 da un'altra opera dello stesso autore, La Famiglia Karnowski, bellissimo romanzo del 1942 che riesce ad imporsi, sebbene di un autore praticamente sconosciuto al pubblico italiano, nella classifica delle vendite, confermandosi così come l'ennesimo “miracolo” della casa editrice di Roberto Calasso.
Il romanzo, clamorosamente, nasce subito dopo la dichiarazione dell'autore di non considerarsi più uno scrittore yiddish; e in effetti, sebbene non solo la lingua ma tutte le tematiche del romanzo possano essere interpretate, in qualche misura, come un ripensamento di quell'affermazione che tanto fece scalpore nei circoli letterari di Varsavia, da un altro punto di vista è proprio l'atteggiamento del narratore a disattendere questo apparente movimento: in quel suo porsi all'origine, in principio, egli diviene una entelechia mitologica, capace di “scrollarsi di dosso tutto ciò che non gli è congeniale” per giungere così all'essenziale.
La vita del giovane Nahum, sposo quindicenne della figlia di Rabbi Melech, capo della potente corte hassidica di Nyesheve, in Galizia, affonda nell'infelicità dell'esistenza greve e materiale della comunità, che la Legge copre col suo velo di interdetti per impedire ai più di vederne la vera natura, finché non si innamora, ricambiato, della nuova e giovane moglie di suo suocero: le conseguenze saranno tragiche, al punto da spingerlo ad abbandonare la corte. Lo straniero che quindici anni dopo tornerà a Nyesheve e che fornirà segni inequivocabili della sua identità, dovrà tuttavia affrontare un tribunale composto da settanta rabbini e difendersi dall'accusa di essere Yoshe il tonto, che tempo prima, per scongiurare un'epidemia, era stato unito in matrimonio alla figlia idiota dello scaccino di Bialogura, da cui era fuggito la prima notte di nozze.
L'autore imbastisce la storia di quest'anima intrappolata nella materia, santo e allo stesso tempo peccatore, creando una tensione spasmodica fra gli antipodi di puro e impuro, ma invertendo le polarità che le Legge attribuisce a questi due estremi. Se da un lato infatti i miasmi delle cucine e l'atmosfera soffocante delle stanze da letto, gli abiti sudici dei mendicanti e i bisbigli che regolano la sessualità della prima notte di nozze, tutti gli aspetti insomma più materiali e opprimenti che emergono dalla pagina in ricche processioni, vengono sempre associati da Singer alla pubblica vita della comunità, d'altro canto l'amore illegittimo fra Nahum e Malka, questo slancio che trova la sua forza nella solitudine che lo allontana da tutto il resto, viene illuminato da una luce quasi immateriale, un bagliore che diviene realmente accecante, e terribile, quando si materializza nell'incendio che distrugge la Sinagoga e che coincide con la prima notte d'amore dei due ragazzi.
La scrittura di Singer descrive minuziosamente un mondo, quello delle corti hassidiche, spogliandolo di ogni riferimento temporale e mutandolo in un universo archetipale, dove il dissidio interiore di ogni uomo, la sua irriducibile dualità, trova la sua grande rappresentazione nella figura enigmatica e sfuggente del protagonista: una figura, come dicevo, che con la sua icasticità mitologica avvicina il lavoro di Singer a quello che negli stessi anni Thomas Mann svolgeva sulle storie di Giuseppe e a quello che, molti anni dopo, Mario Brelich intraprenderà attraverso la reinterpretazione e la “revisione” della Bibbia alla luce dell'ironia e della psicologia del profondo.
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