Solitario, intempestivo: morì a 38 anni da sconosciuto, senza vedere messa in scena nessuna delle sue pièce importanti. Ora è l’autore contemporaneo più rappresentato in Francia, secondo solo a Shakespeare e Molière,

è entrato nel repertorio della Comédie Française e anche in Italia ha iniziato a riscuotere un qualche successo, come conferma la recente pubblicazione di un suo delizioso libretto, che raccoglie saggi brevi e un’opera minore. Jean-Luc Lagarce non è solo l’ultimo enfant prodige della drammaturgia d’Oltralpe, prematuramente stroncato dall’Aids nel 1995, alla stregua dei suoi talentuosi predecessori Copi e Bernard-Marie Koltès; Lagarce è l’intellettuale «del lusso e dell’impotenza», mutuando il titolo della sua antologia di scritti, edita da Cronopio (Music-Hall. Del lusso e dell’impotenza, pagg. 130, € 11,00) e di prossimo allestimento al Festival di Avignone Off con la regia di Ivan Morane (dal 5 al 7 luglio).

«Dobbiamo proteggere i luoghi della creazione, i luoghi del lusso del pensiero, i luoghi del superficiale… Sono la nostra bella proprietà, le nostre case, di tutti e di ciascuno. Gli impressionanti edifici della certezza definitiva non ci mancano, smettiamo di costruirne». L’artista coltiva il suo orticello del pensiero allergico: la sua proprietà è un furto; l’agiatezza gli è indispensabile, come scrive Rafael Spregelburd, altro teatrante di fama: «La letteratura è un lusso! Deve esserlo. Mi sono necessarie alcune comodità. Con un fucile in mano e il mio paese in fiamme non farei altro che scrivere cose frivole... È necessaria la mia tranquillità perché la sofferenza degli altri raggiunga una certa bellezza».

Anche per Lagarce il lusso consiste nell’«essere arroganti, perché no? Essere solidi o vivi, è uguale. Non vergognarsi in anticipo, condannarsi a priori, rinunciare ai viaggi di gruppo, bande, tribù, corporazioni diverse e pullman consensuali. Non essere assistiti. Evitare le cene di tournée, le cerimonie conclusive, i funerali, le premiazioni e i falò. Perdersi, essere persi, ci ritroveremo comunque. Scegliere i propri amici, ammettere i propri disgusti, rivendicare la propria intolleranza», così come Nabokov allevava con cura le proprie Intransigenze.

Giunge però l’eco impietosa di un verso di Hölderlin: «A che scopo i poeti in miseri tempi?» o, continua l’autore, «perché il teatro nei giorni del dolore?... E ancora, con quale diritto si osa inventare qualche lusso e lo si vuole condividere, e lasciare un po’ di posto alla bellezza, all’inutile, all’incerto?». L’artista è vocato all’inadeguatezza e condannato al senso di colpa: suscita tenerezza come i «maghi debuttanti», o «paura disonesta» come i vecchi trapezisti, o tristezza come i tre inetti protagonisti di Music-Hall, «imbroglioni fino all’ultimo,/ facciamo finta di esistere,/ e recitiamo comunque». Spiega la curatrice del volume Gioia Costa che «i cardini del modo di raccontare» di Lagarce sono «il limite incerto fra la verità e l’imbroglio, il gioco fra esitazione e rinuncia, la ricerca della parola esatta e la difficoltà di dirla».

Oltre alle cinquecento pagine del Diario, il comédien ha scritto, in una manciata d’anni di carriera, venticinque testi, tra teatro di prosa, libretti d’opera, sceneggiature, e ha persino fondato la casa editrice Les Solitaires Intempestifs. Qualche anno fa, i suoi lavori più significativi sono stati pubblicati e rappresentati anche a Milano, grazie a Ubulibri e al network “Face à Face - Parole d’Italia per scene di Francia”: al Piccolo, in un progetto curato da Luca Ronconi, si sono visti Giusto la fine del mondo e I pretendenti, mentre all’Out Off Ultimi rimorsi prima dell’oblio. «Imbrogliare in silenzio, mentire con cortesia… fare finta oppure vivere le nostre vite»: così il teatro, la più effimera, inutile e impotente delle arti, è l’ultima spiaggia del lusso del pensiero, a patto di non essere intempestivi, di «non recitare la parte del solitario al momento sbagliato».