L’esplosione del 21 giugno a Mosul ha raso al suolo la moschea di al-Nuri e il suo minareto incrementando così una lunga lista di monumenti devastati dall’ISIS che già includeva altri luoghi simbolici della città irachena quali il mausoleo del profeta Yunus (Giona) e il sito di Ninive. Poco prima di abbandonare le ultime posizioni i militanti hanno fatto brillare l’esplosivo sfigurando irreparabilmente il centro storico della città e impedendo che una delle sue icone divenisse simbolo della riconquista irachena. Piegato dal vento di nord-ovest l’esile corpo del minareto al-Hadba “il Gobbo” caratterizzava da quasi nove secoli il panorama della città vecchia di Mosul. Questo monumento, tanto amato a livello nazionale da campeggiare sulle banconote da 10.000 Iraqi Dinar, deve la sua curiosa denominazione all’insolita forma pendente causata da cedimenti strutturali e dalle forti raffiche di vento che solcano la piana del Tigri.

La grande Moschea fu edificata nel 1172 d.C. da Nur al-din Mahmud ibn Zangi, condottiero di origine turcomanna meglio conosciuto dalle fonti occidentali col nome di Norandino, uno dei più formidabili avversari dei regni crociati d’Oltremare. Dai suoi possedimenti, posti fra Aleppo e Mosul, l’emiro sottrasse ai cavalieri cristiani numerose città e fortezze, guadagnandosi un posto fra gli eroi della riconquista musulmana e spianando la strada alle imprese di Saladino, che proprio al servizio di Nur al-Din iniziò la sua folgorante carriera.

Seguendo le orme di suo padre, ‘Imad al-din Zangi, fondatore della dinastia Zangide e conquistatore della contea crociata di Edessa, Nur al-Din riuscì a unificare un grande regno il cui cuore, la regione della Jazira, corrispondeva grosso modo a quegli stessi territori caduti in mano all’ISIS. Al contrario però di Abu Bakr al-Baghdadi, che dal pulpito istoriato della moschea di al-Nuri si autoproclamò nel luglio 2014 Califfo dello “Stato Islamico”, Nur al-Din si mostrò tollerante nei confronti delle diverse confessioni e rispettoso dei suoi avversari. Tanto la sua magnanimità quanto le sue temute qualità sono infatti riportate nelle nostre stesse cronache medievali di norma così avverse al mondo islamico.

Per la costruzione della sua moschea a Mosul l’Emiro si rifece allo stile in voga ispirandosi a modelli architettonici selgiuchidi; lo stesso minareto di al-Hadba presentava decorazioni geometriche in mattoni simili a quelle ancora visibili in strutture analoghe di diverse città storiche dell’Iran, quali ad esempio Saveh, Semnan o Damghan. Il contrasto più stridente fra le desolanti immagini di distruzione e il panorama che fu è forse offerto da una manciata di foto d’epoca conservate nella collezione della Library of Congress di Washington D.C. realizzate dalla missione locale della Chiesa episcopale americana nei primi anni ’30 del secolo scorso. Le foto in bianco e nero mostrano vita e scorci di una Mosul ancora sospesa in un’atmosfera senza tempo. Le immagini catturano vecchi mestieri e dimore decorate sulle quali si proietta l’ombra inconfondibile del minareto, protagonista assoluto del profilo cittadino e sentinella della memoria storica locale. Il significato di questo monumento invero andava oltre la mera importanza storico-artistica, definendo un’appartenenza civica che travalicava distinzioni etniche e confessionali. Su di esso si intessevano storie e leggende composte nei molteplici idiomi parlati dall’eterogenea popolazione della vecchia Mosul.

Per secoli punto di riferimento per gli abitanti di questo grande centro urbano, arabi, siri, curdi, turcomanni o armeni che fossero, il minareto pendente dominava un dedalo di vicoli in cui fino a poco tempo fa le moschee si alternavano a chiese di diverso credo e luoghi di culto yazidi. A partire dai massacri del primo conflitto mondiale questa varietà umana e culturale si è progressivamente dissolta attraverso un processo acceleratosi in seguito alle guerre del Golfo e culminato oggi in un drammatico epilogo.

Priva del suo simbolo e ancora in lotta per la salvaguardia dei suoi abitanti, la vecchia Mosul dovrà intraprendere un faticoso percorso di ricostruzione, tanto materiale che culturale, evitando la deriva di indiscriminate ritorsioni e gettando le basi per il recupero di una società civile e pacifica.