Certe volte un cappello può fare la differenza. Perlomeno era così a casa dello scrittore Carlo Fruttero, che aveva escogitato con i suoi familiari un curiosissimo stratagemma per potere lavorare tra le mura domestiche senza essere disturbato: se lo si vedeva in giro con indosso il cappello, allora nessuno poteva rivolgergli la parola; se invece non aveva il cappello indosso, gli si poteva chiedere qualsiasi cosa.
Questo simpatico aneddoto raccontato dalla figlia Maria Carla non descrive soltanto una prima, felice esperienza di home working, o smart working, ma ci offre la possibilità di riflettere su ciò che viene spesso definito “lavoro immateriale”. Carlo Fruttero, infatti, non sfoggiava il cappello per foderare una scarpa o aggiustare una staccionata. Il cappello aveva una funzione essenziale per un motivo ben preciso: impedire che qualcuno gli facesse perdere il filo dei suoi pensieri. Perché il suo lavoro si concentrava proprio sul trattenerli, quei pensieri, indispensabili per inventare storie e poi scriverle. Un perfetto esempio di lavoro immateriale, potremmo dire.
Naturalmente l’immaterialità comprende tanti altri campi oltre a quello letterario: un attore che recita un monologo di Shakespeare, un pianista che suona una partitura di Rachmaninov, un artista che fa una performance dal vivo. Nessuno di loro produce una merce acquistabile; tutti però offrono a un editore, a un produttore o a un imprenditore le loro esperienze artistiche perché queste vengano offerte a un pubblico.
Adesso, a noi non interessa ritornare sulle implicazioni proposte dal filosofo Walter Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ma senza dubbio importa capire qual è oggi la percezione del lavoro immateriale nel nostro Paese. E cercheremo di farlo attraverso un libro e una lettera.
La lettera è la risposta del premier Giuseppe Conte all’appello del maestro Riccardo Muti del 26 ottobre. Dopo l’annuncio del dpcm del 24 ottobre sulla chiusura di teatri, cinema e sale da concerto, Muti in una lettera aperta pubblicata dal Corriere della sera esortava Conte a non considerare «superflue» queste attività e chiedeva la loro riapertura. Giuseppe Conte replica l’indomani, sempre sul Corriere, ricusando elegantemente le richieste del direttore d’orchestra. È molto interessante, però, soffermarsi sulle categorie utilizzate per mitigare la sua posizione. Per sottolineare che la sua è stata «una decisione particolarmente sofferta», Conte scrive: «Ma non intendiamo affatto rinunciare alla bellezza, alla cultura, alla musica, all’arte, al cinema, al teatro. Abbiamo bisogno del nutrimento che da queste attività ricaviamo e della capacità di sogno che queste ci suscitano. Intendiamo tornare al più presto a fruire di queste emozioni in compagnia, condividendo la muta armonia che si instaura in presenza di un vicino, anche se sconosciuto. La nostra dimensione spirituale non potrebbe sopravvivere senza questa esperienza». Bellezza, cultura, emozioni, dimensione spirituale: queste parole tracciano il campo semantico del lavoro immateriale in Italia. Se si parla di cultura, non si parla mai di indotto, di sistema economico che partecipa alla ricchezza della nazione. Non sentiamo mai parlare della macchina industriale che vive dietro ai teatri, ai cinema, alle sale da concerto, ai festival. È sempre tutto relegato all’universo delle emozioni, dei sogni. E un’emozione in più o in meno, alla fine, non conta molto per uno Stato. Effettivamente, emozionare non è un lavoro, è una conseguenza suscitata dalle esperienze culturali prima evocate.
Ebbene, se il lavoro immateriale continuerà a essere considerato solo dentro quel campo semantico, i teatri, le sale da concerto, i cinema, i festival saranno sempre giudicati attività superflue. Sia durante la pandemia sia dopo la sua fine. Dal momento che vengono percepiti esclusivamente nella loro dimensione di passatempo e svago, di assistenza per spiriti afflitti o cuori infranti, è difficile pensare che possano avere un’utilità ulteriore. Quando, invece, sappiamo bene che contribuiscono concretamente al PIL italiano.
Questo non significa che il governo Conte sbagli ad applicare certe misure per il contenimento del contagio; ma le parole del premier nella replica a Muti testimoniano sicuramente il pregiudizio, consapevole o meno, nei confronti di tutti quei lavoratori che non producono o vendono niente di materiale.
Per provare a sanare quel pregiudizio bisognerebbe provare a leggere un libro uscito da poco, si intitola Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore (il Saggiatore), l’esordio narrativo di Gabriele Sassone: un insegnante d’arte si trova a preparare, in una notte, una relazione sulla situazione dell’arte nell’epoca dei social media. Che si trasforma presto in una complessa e appassionante riflessione su chi siano oggi e come si diventi artisti, sul ruolo che questi occupano nella nostra società e sulla percezione che molti hanno di simili figure. In una delle pagine più sorprendenti Sassone fa un raffronto tra il dipinto di Francisco Goya, Cane interrato nella rena, e i sacrifici che compie un artista emergente per sopravvivere. Come il cane di Goya, l’artista si affanna strenuamente per emergere dalla sabbia, rinuncia a tutto, alla famiglia, a un lavoro sicuro, rinuncia persino al suo corpo, per potere continuare a esserci, a creare. Ma attorno a lui c’è solamente la rena, l’indifferenza generale che lo annega.
Assimilare quell’immagine significherebbe cominciare a prendere coscienza del ruolo e della necessità del lavoro immateriale in Italia. E comprendere che la metafora del cane di Goya potrebbe fatalmente estendersi e risucchiare, come sabbie mobili, i lavori di tutti i generi. Lasciando in superficie un trascurato, consunto cappello.