Può sembrare ovvio, ma quando si parla (anche) di letteratura, trascurare il contesto storico e sociale di riferimento comporta, inevitabilmente, non capire nulla di quello di cui si sta parlando. Il tanto celebrato – ma dallo stesso autore significativamente misconosciuto, specialmente se applicato a se stesso – intuito psicologico di Dostoevskij si capisce assai meglio se lo si studia sullo sfondo di una società semifeudale in tumultuosa e brutale transizione verso un capitalismo di rapina non molto diverso da quello degli attuali Paesi africani o dell’Asia sudorientale (ma anche della Russia stessa nel folle decennio degli anni Novanta). Lo stesso può dirsi della cosiddetta satira gogoliana, che se adeguatamente inquadrata nello spazio e nel tempo emerge incontestabilmente come una critica spietata – dai tratti apocalittici, danteschi – di una società, quella della piccola nobiltà terriera di provincia, in stato avanzato, letteralmente e figurativamente, di decomposizione: un discorso che è applicabile anche ad un’opera apparentemente elegiaca come Il giardino dei ciliegi, ad un’analisi meno impressionistica l’assai poco cerimonioso funerale di un mondo irriformabilmente vacuo e per questo destinato ad essere spazzato via.
Caveat siffatti impongono di domandarsi cosa ci possa essere dietro a due capolavori di Bulgakov come Cuore di cane e Uova fatali: una nemmeno troppo velata critica alla pretesa bolscevica di costruire l’uomo nuovo? Una presa di posizione nei confronti delle implicazioni più crudamente scientiste (ai limiti del darwinismo sociale) delle scoperte del grande Pavlov – lui stesso per altro tutt’altro che conciliante nei confronti del nuovo potere sovietico? In entrambe queste ipotesi vi è senza dubbio un seme – e forse più – di verità, ma varrebbe la pena porre mente alla data dei racconti in questione, vale a dire il 1925: prima della collettivizzazione, prima delle purghe di partito, prima di Ežov, quando ancora l’Unione Sovietica era, nei fatti e idealmente, un immenso cantiere aperto (Lo sterro di Andrej Platonov è del 1929 e in retrospettiva sigilla il tramonto di quel progetto). All’epoca in cui Bulgakov scriveva, la vita intellettuale sovietica era pervasa, nemmeno troppo sotterraneamente, da istanze rivoluzionarie che non è esagerato definire cosmiche, la cui incarnazione, nel vero senso della parola, può essere riconosciuta nel progetto, apparentemente folle ed osteggiato da parecchi membri della vecchia guardia (su tutti Trockij, che vi vedeva una forma nemmeno troppo nascosta di idolatria, ma, significativamente, non da Stalin) di preservare il cadavere di Lenin, morto l’anno precedente. Conservarlo, si badi bene, non per sempre, ma fino a quando, in un futuro auspicabilmente non troppo anteriore, la scienza sovietica sarebbe stata in grado di sconfiggere non solo il capitalismo, l’alienazione di classe e la superstizione religiosa, ma anche la morte stessa. A quel punto, il più grande spirito della storia umana, la guida della rivoluzione, sarebbe potuto tornare a camminare sulla terra e dimostrarsi per ciò che Majakovskij lo aveva celebrato: più vivo dei vivi.
Nel suo ultimo libro, evocativamente intitolato Lenin ha camminato sulla Luna, il giornalista e scrittore francese (ma oriundo russo) Michel Eltchaninoff ricostruisce in dieci appassionanti capitoli la folle storia dei cosmisti e dei transumanisti russi, dalle origini del movimento nella provincia russa (Kaluga, oggi un vero e proprio luogo di culto e meta non casuale di alcuni importanti viaggi di rappresentanza di Putin sin dall’oramai lontano 2007) fino alla moderna criogenetica ed all’ormai iconico ma, a conclusione del libro si capisce, niente affatto originale «colonize Mars!» di Elon Musk.
Oggigiorno, al di fuori della Russia e spesso anche al didentro, individui come Nikolaj Fëdorov, Konstantin Ciolkovskij o Vladimir Vernadskij risultano pressoché interamente sconosciuti. Eppure, la loro influenza non solo sulla cultura russa (e sovietica), ma anche – forse particolarmente, benché non sempre con la consapevolezza degli interessati – sul movimento New age californiano e giù fino agli esperimenti più audaci dei miliardari contemporanei (molti dei quali, significativamente, di ascendenze russe) è difficile da sottostimare. Da ciò ne consegue che ricostruirne il pensiero aiuta a capire non poco di quello che il secolo sovietico è stato, di ciò che la cultura russa in buona misura ancora è e forse, si può ipotizzare, a rintracciare la genesi di progetti, ambizioni (o follie, dipende dai punti di vista) che siamo portati a identificare con l’era della digitalizzazione e con gli sviluppi del capitalismo neoliberista occidentale ma le cui radici affondano invece, sorprendentemente per i più, letteralmente in un’altra epoca ed in un altro mondo, che è assai più nostro di quanto la retorica corrente, in Russia e in casa nostra, sia disposta a concedere.
Il volume, dunque, con il tono ora della conversazione semicolta, ora del saggio più propriamente accademico, non di rado concedendo spazio alle movenze dell’inchiesta giornalistica, può essere letto come una sorta di corso accelerato di storia sovietica sub specie universi. Il motivo di ciò è abbastanza semplice da individuare: nonostante le ambizioni di più d’uno tra i suoi artefici (ancora una volta Trockij è forse il volto più prominente, di certo non l’unico) di liquidare il passato, specialmente antico russo, senza compromessi di sorta, l’Unione Sovietica nacque non tanto – o non solo – sulle ceneri della società zarista, ma sul suo vivo tronco, portando con sé molte delle idee, spesso incarnate in individui fatti di carne e sangue, che quella società avevano animato: non da ultima una corrente visionaria più o meno animata da tendenze spiritualiste quando non apertamente mistiche che, per esempio in Fëdorov, apertamente invocavano il superamento dei limiti terreni dell’umano come precondizione per l’avvento di una forma superiore (migliore) dello stesso. Se poi si pensa che tutti i bolscevichi della vecchia guardia, a partire da Lenin, erano figli della cultura iperscientista di impronta positivista, risulta ancora meno arduo capire come progetti di “resuscitazione” (voškresenie in russo, la cui omologia con il termine per “resurrezione” ‒ e domenica – ovvero voskresenie, è ai limiti dell’ominoso) quali quelli coltivati da Fëdorov, una volta depurati del sostrato cristianeggiante, si adattassero perfettamente ad un progetto sociale ed antropologico radicale, ai limiti della catarsi millenarista, come suggerito da Yuri Slezkine, come quello sovietico.
Con il senno di poi può forse sembrare ridicolo che il progetto, coronato da successo, di spedire un uomo nello spazio onde dimostrare non solo la supremazia dell’industria socialista, ma anche i suoi fondamenti filosofici («sono stato nello spazio, e non c’è traccia né di dio né degli angeli», secondo la celeberrima affermazione di Gagarin), potesse avere una qualche parentela, a conti fatti assai più che putativa, con i progetti di un bibliotecario autodidatta che vedeva nella conquista del Sistema solare prima e del Cosmo tutto poi l’unica soluzione al sovraffollamento del pianeta Terra conseguente sia, se così si può dire, alla formula dell’immortalità, ma anche al successo di un progetto umano (prometeico) di voškresenie dei morti ante deum e pro deo. Eppure questo è stato: non solo, ma Eltchaninoff ha il merito di portare all’attenzione del suo pubblico la storia intellettuale di alcuni dei capolavori supremi della cultura sovietica, da Solaris ad Andrej Rublëv, dai romanzi dei fratelli Strugackij al già citato Bulgakov fino alla straordinaria produzione di Platonov (Čevengur è stato meritoriamente ritradotto pochi anni fa da Einaudi), con ciò offrendo uno sguardo insolito, ma estremamente istruttivo, su un Paese e una cultura che alle nostre latitudini – complici non da ultimo le più recenti vicende – rimangono (e sembrano divenire sempre più) estranei, ma con cui invece condividiamo molto più di quanto vorremmo ammettere, e con cui non possiamo smettere di fare i conti.
«Nella nostra concezione dell’umanità», si domanda Eltchaninoff in chiusura alla sua introduzione (pp. 15-16) «che cosa significa il progetto di sconfiggere la morte?». Che senso può avere il progetto di vivere altrove che sulla Terra (salvo quello del presidente USA e della sua cricca di delinquenti in Don’t look up)? Quale, ancora, la portata delle azioni dell’uomo se esse sono ormai in grado – e potrebbero diventarlo sempre più – di condizionare il clima o la geologia? Nel momento in cui, con il progetto Starlink ed altri affini, individui come Elon Musk si propongono, di nuovo, di dare vita, linneanamente, ad un nuovo genus umano (leggere Harari per credere), interrogativi di questo genere assumono i contorni della più stretta attualità. Uno tra i motivi per cui vale la pena immergersi nella lettura di Lenin ha camminato sulla Luna è da identificarsi senza tema di smentita nel fatto che, contrariamente a quanto in molti sarebbero e sono inclini a pensare, la Silicon Valley non è il punto di partenza (e forse non sarà nemmeno quello di arrivo) di questa storia apparentemente così strampalata. In un momento cruciale del suo tragitto, il viaggio verso l’Oltreuomo vira verso quell’Europa orientale che, ancora una volta, qualcuno dalle nostre parti identifica come la frontiera tra “noi” e “loro”. Non solo: come Eltchaninoff dimostra, questo percorso è passato diverse volte per le tranquille vie dell’apparentemente provinciale (ad occhi non russi, si intende) cittadina di Kaluga.
Michel Eltchaninoff, Lenin ha camminato sulla Luna. La folle storia dei cosmisti e dei transumanisti russi, Traduzione di Luisa Doplicher, Roma, Edizioni E/O, 2022, pp. 240