9 marzo 2018

Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere

Se vi state fermando al distributore Eni per fare il pieno, vi capita di alzare il capo e di chiedervi chi abbia mai ideato, almeno in parte, l’insegna con il cane a sei zampe sputa fiamme, allora la risposta è: colpa di un poeta, colpa di Leonardo Sinisgalli.

Nato a Montemurro, in provincia di Potenza, il 9 marzo 1908, è costretto ad emigrare a Roma, ultimo arrivato dei poeti meridionali come Quasimodo siracusano e Gatto salernitano.

Si iscrive alla facoltà di Matematica fino alla crisi del 1929, quando invece di seguire Enrico Fermi sullo studio folgorante dell’atomica, preferisce stringere al petto le Liriche di Corazzini e dibattere con entusiasmo sulla terrazza di un palazzo in Via Cavour, sede della “Scuola romana”, con i suoi più alti esponenti come Scipione e Mafai, e con eminenze letterarie del calibro di Cecchi, Ungaretti e De Libero.

Si laurea in ingegneria industriale, a Milano collabora prima con le riviste mensili Casabella e Domus, lavora successivamente come responsabile pubblicitario all’Olivetti, tiene poi il timone di varie riviste aziendali in mano alla Società del Linoleum e della Pirelli. Rivoluziona l’ambiente delle gallerie d’arte, la cultura si confronta con la produzione; nello stesso santuario serie di bulloni e cumuli di automi condividono lo spazio con opere di Kandinsky e di Consagra.

In Ritratti di macchine il poeta ingegnere compie un’opera di mirabile persuasione letteraria, la prosa si muove con strabiliante sensibilità e seduzione futurista, ci sorprende su come riesca a renderci così vigili e meditativi, parlando di impianti e congegni:

«E un giorno, quando imparai anche che queste materie invecchiano come il nostro sangue, e ad opera di speciali bagni si può riuscire ad allentarne l’intima disgregazione, e farle addirittura rinvenire, restai meravigliato e soddisfatto. [...] Ho trascorso alcuni giorni di questa ultima primavera in un paese dell’Umbria per farmi un’esperienza in fabbrica: quando gli operai avevano abbandonato i reparti mi piaceva andare a trovare le macchine in riposo, di coglierle nella loro stanchezza».

Dal 1953 al 1958 fonderà e dirigerà per Finmeccanica, la rivista Civiltà delle macchine. Sarà una stagione particolarmente cruciale poiché il Sinisgalli engagé cercherà di realizzare un progetto ambiziosissimo: comporre una polifonia di voci, contenuti, riflessioni, dialettiche considerando il sapere scientifico e quello umanistico come un perenne spazio di contaminazione. Un coacervo di energie apparentemente distanti seguirà una sfera continua, attorno alla quale ruoterà la teoria di Goethe sui colori assieme agli studi sul volo di Leonardo da Vinci, fino alle indagini anticipatrici riguardo l’elettronica, la missilistica, la cibernetica.

Tuttavia, non dimentica il suo Sud. Sa di avere a disposizione un forte potere di diffusione mediatica, tanto da riunire le testimonianze e i contributi di una folta schiera prima di artisti, letterati e poeti come Trufelli, Parrella, Perilli e Riviello, spesso più incisivi nel denunciare il dramma di arretratezza della Lucania rispetto alle scarse e contorte disamine socioeconomiche; poi di architetti come Paolo Portoghesi, di antropologi come Amedeo Serra e di giornalisti come Mario la Cava con le loro inchieste sul mondo contadino.

Rivestirà infine il ruolo più strategico di dirigente nei servizi di pubblicità e propaganda all’interno del gruppo Eni, sotto l’ala di Mattei, sbaragliando la concorrenza con i suoi slogan visionari.

Sinisgalli incarna il modello di uomo del Rinascimento, perseguendo l’obiettivo di diventare «universale». Così arte e scienza agiscono su linguaggi diversi, ma comunicanti, perché entrambi possano avere una sola intuizione del reale: dalla letteratura assorbirà le lezioni indispensabili di Mallarmé e Valéry, passerà poi ai trattati di geometria e architettura di Cartesio e Leon Battista Alberti, fino a promuovere e finanziare la costruzione nel 1956 del primo robot di Silvio Ceccato, intrecciando con profonda esattezza le discipline del suo tempo.

Va riconosciuto il merito al puntuale curatore Giuseppe Lupo, di aver raccolto in Furor geometricus (Aragno) e in Sinisgalli a Milano (Interlinea), inediti, frammenti di un viaggio, articoli e pagine autobiografiche preziose dove si afferma la cultura come una varietà di corpi in linea con una visione contemporanea del mondo; così come è auspicabile che venga ripubblicata presto l’opera poetica di un personaggio decisivo del Novecento.

Tratteremo dalla nostra ottica una sola delle sue facce, la più fragile, durante il periodo chiave della sua produzione: ciò che l’uomo chiede alla macchina è il ritmo, incessante e prodigioso, lo stesso chiederà Sinisgalli alla poesia, perché se nelle prime raccolte quali  Diciotto poesie e Campi Elisi dimostra la capacità di scriverle in poche settimane con un certo tratto impressionista, dal 1962 in poi con L’età della luna la Musa non si riesce più a distinguere dall’ombra delle cose, diviene col tempo imprendibile, e in definitiva “decrepita”. Il riso si tramuta in smorfia, l’ispirazione scompare. Si tratta essenzialmente di una raccolta di prosa poetica, in cui i versi assumono la forma di epigramma.

Sinisgalli ragiona ormai maturo sulla coerenza estetica che ha adottato nel tempo, visto che «ci siamo lasciati sedurre dal rifiuto del metodo, da una certa geniale improvvisazione», cerca con accuratezza la sintesi tra logica e scarica elettrica, dirà come se fosse a lezione da se stesso tra il tono apologetico e il terrore di non coprire il distacco: «Petrarca e Baudelaire conservano un gusto spiccato per la composizione, ecco perché rifiutano la grazia. Leopardi scrive ogni poesia come se fosse l’ultima. La crescita del Canzoniere e delle Fleurs non è stata casuale ma organica». Il momento di assimilare l’emulazione e l’ossessione di inventare uno stile vengono impresse nella formula a+bj, dove a e b sono quantità reali e j la variabile immaginaria, dove la poesia è qualcosa di estremamente logorante e pericoloso: «del resto le rivoluzioni e le rivolte hanno senso soltanto se nascono come correzioni alle regole, alle consuetudini. Pensate che con un piccolo termine aggiunto Einstein ha cambiato l’universo».

Sinisgalli sarà perpetuamente turbato dal fissare una grammatica speciale all’interno di capsule a cui sfuggiranno quei transiti celesti, quelle piume invisibili che irrobustiscono il cielo. Mobilita tutte le sue forze cognitive, non smette mai di indagare il vuoto, di tracciare tutte le possibili spirali del sapere, e se la matematica non si stanca di fabbricare ipotesi, la poesia scopre ciò che non esiste:

«Come vedete non ci si difende dalla noia con la matematica, come non ci si difende con la poesia. E il matematico e il poeta, anche quelli di spirito più eccelsi, non riusciranno mai a riempire tutta la vita di poesia o di matematica. Tra un verso e l’altro, tra un teorema e l’altro, scorre la vita che ci sorprende miserabili, malinconici, deboli. Solo i re biblici avevamo il potere di conservare l’autorità in ogni momento. Ma i poeti e i matematici sono autorevoli e attendibili soltanto quando, spesso incomprensibili, hanno allineato certi accenti e stabilito certi ordini».

Successivamente nel 1970 esce la raccolta Il passero e il lebbroso, dove un costante presagio di inaridimento immobilizza l’entità di luoghi e spazi, la memoria rinuncerà a segnare una cronologia degli eventi, egli reclina la testa sullo scranno, adopera con sarcasmo la lente di ingrandimento sul volto della polvere. Se Keats vuole ripetere il canto dell’usignolo, Sinisgalli replica con il ronzio della mosca, attrice eletta all’interno del suo bestiario privato, metafora del verso che prima si posa, poi si allontana, in un gioco bizzarro e favolistico, in grado di sovvertire il sublime con il gesto quotidiano, così in Autunno:

«Le mosche sembrano / felici di rivedermi. / Strisciano sulle stanghette degli occhiali, saltano / sulle stanghette / degli occhiali, saltano / sulla punta delle orecchie. / Il foglio bianco le affascina. / Parlo, le accarezzo, / le raccolgo nel pugno, / le chiamo di nome / Fantina Filomena Felicetta. / Mi illudo che siano / sempre quelle. / Una si specchia nell’unghia, / le altre si nascondono / per farsi trovare».

Ma lo sguardo volge altrove, alla ricerca di cifre segrete e volti sospesi, il cielo con la sua immensità appare senza contorni, sonno e sogno rigano la dolce valle d’Agri: Sinisgalli trae godimento dalle altitudini, tremando al divieto divino, scende in picchiata solo per requisire la “parola assoluta”, per riportarla infine, impavido sopra la vetta:

«Il nibbio vola più alto. Continuerò a volare, e spero alto, e sempre con l’aggressività del nibbio che se vede un coniglio da mille metri, giù negli arbusti, si butta e in un attimo lo afferra e se lo porta in cima alla montagna».


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