Il 2 agosto è la Giornata della memoria dei Rom e dei Sinti sterminati dai nazisti nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale. Tale data è stata scelta da qualche anno perché fu nella notte del 1° agosto 1944 che tutti i prigionieri dello Zigeunerlager di Auschwitz vennero uccisi nelle camere a gas. Erano almeno 4.000 persone (alcuni studiosi ipotizzano persino 10.000), uomini, donne e bambini, vecchi e giovani, sterminati in una manciata di ore. Lo ricordava sempre Piero Terracina, scomparso qualche anno fa, infaticabile testimone della Shoah, deportato ad Auschwitz ad appena 15 anni: «Di quella notte ricordo le urla e i pianti, l’abbaiare dei cani, gli ordini in tedesco e le fiamme che uscivano dai forni crematori. La mattina dopo il silenzio e lo Zigeunerlager completamente vuoto. Purtroppo, la loro è una storia dimenticata anche se furono nostri fratelli nella deportazione perché anche loro furono uccisi come razza inferiore».

A lungo rimossa da storici e studiosi, quella dello sterminio dei Rom e dei Sinti è una storia offesa dalla mancanza di memoria pubblica anche in ragione del fatto che è stata spesso frettolosamente inglobata nella tragedia della Seconda guerra mondiale senza riconoscere che almeno 500.000 Rom e Sinti assassinati dal Terzo Reich furono vittime dell’unica deportazione – insieme a quella ebraica – dettata da motivazioni esclusivamente razziali. Il nazismo, infatti, riservò loro lo stesso trattamento toccato agli Ebrei: già dal 1935 (anno delle leggi di Norimberga) in Germania iniziarono una serie di studi in cui la ‘razza zingara’ veniva definita «inferiore e pericolosa», da «sradicare» dal suolo del Reich. Da allora, come nel caso degli Ebrei, teoria e prassi procedettero di pari passo tanto che già in occasione delle Olimpiadi del 1936 Berlino fu ‘ripulita’ da un migliaio di ‘Zigeuner’ internati a Marzahn e a Dachau.

La malsana commistione tra scienza, potere e legislazione che caratterizzò il nazionalsocialismo si accanì quindi anche contro i Rom. Man mano che i nazisti istituzionalizzavano la loro macchina razziale anche la ‘questione zingara’ assumeva contorni propri, affidata nientemeno che al capo delle SS e della polizia del Reich Heinrich Himmler che fin dal 1938 la definì una «questione di razza» e promulgò una serie di decreti culminati in quello di Auschwitz, del 1942, che stabilì anche per i Rom, analogamente alla ‘soluzione finale della questione ebraica’, un destino di sterminio totale. I Rom furono quindi perseguitati, imprigionati, seviziati negli esperimenti medici e uccisi nelle terribili esecuzioni di massa nei Paesi dell’Est e nei lager di tutta l’Europa occupata. Lì finirono anche Rom e Sinti dall’Italia, prima arrestati e rinchiusi nei campi di concentramento fascisti come, ad esempio, Ferramonti in Calabria o Agnone in Molise, un campo costruito appositamente per loro.

Oggi, per ricordare questo immenso orrore, alcuni parlano di Porrajmos (o Porajmos), che in romanes significa più o meno ‘distruzione’, mentre altri preferiscono il termine Samudaripen, molto più simile al nostro ‘sterminio’. Al di là delle definizioni, va sottolineato che questa Giornata della memoria Rom acquista un senso se aiuta a superare anni di rimozione storica e di negazione di una persecuzione che si allunga indietro e avanti nella storia, fino alle vicende più recenti del popolo Rom. Mai presenti nei processi seguiti alla Seconda guerra mondiale, come quello di Norimberga, e quasi esclusi dalle riparazioni di guerra, i Rom sono rimasti prigionieri di quei pregiudizi radicati che, dopo la guerra, li hanno nuovamente condannati anche a prescindere dai loro comportamenti. Per questo la negazione assume una duplice valenza: non solo cancella la memoria di centinaia di migliaia di vittime, ma investe l’identità attuale dei Rom sparsi in tutta Europa. Anche in Italia dove, secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, dieci anni fa erano circa 150.000, più o meno lo 0,23% della popolazione. Di questi circa la metà con la cittadinanza italiana, un quarto autoctoni e molti altri arrivati nel nostro Paese più di trent’anni fa, per esempio fuggiti dalla guerra nella ex Iugoslavia o con le grandi migrazioni da Romania e Bulgaria. Eppure, restano l’unica minoranza etnica e linguistica non riconosciuta, identificati sempre come ‘nomadi’ nonostante non lo siano più da decenni. Mantenerli ‘diversi’ per definizione, però, aiuta a non assumersi la responsabilità della loro cancellazione anche culturale, senza chiedersi se non varrebbe la pena di riflettere su cosa potremmo imparare dalla (loro) differenza. Lo scriveva il Nobel per la letteratura Günter Grass vent’anni fa: «Lasciate che un milione di Rom vivano tra noi. Ne abbiamo bisogno. Potrebbero insegnarci quanto prive di significato sono le frontiere: incuranti dei confini i Rom e i Sinti sono di casa in tutta Europa. Sono ciò che noi proclamiamo di voler essere: cittadini d’Europa. Forse ci servono proprio coloro che temiamo tanto».

Immagine: Henri Rousseau, La Bohémienne endormie, 1897. Crediti:  MoMA, New York. Fonte/fotografo, Oakenchips (pubblico dominio), attraverso it.wikipedia.org

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