Non è solo l’emersione dalle brume dell’oblio di uno straordinario scritto di Giovanni Testori, che si credeva smarrito o addirittura distrutto dall’autore stesso, a rendere importante la pubblicazione per Feltrinelli di Luchino (con la curatela impeccabile di Giovanni Agosti), ma anche la possibilità, che le sue pagine spalancano attraverso un’argomentazione allo stesso tempo analitica e poetica, di dissipare un malinteso la cui foschia sembra ormai intridere qualsiasi giudizio critico si voglia sollevare sul lavoro, cinematografico e teatrale, di Visconti. A gravare come peso ineludibile sull’opera del regista, da troppi anni, è l’accusa capitale di estetismo dannunziano (neanche fosse un crimine…), che come carie impossibile da estirpare solca tutta la seconda parte della sua carriera, gettando così anche sulla prima un’ombra di inautenticità e artificio; la quale, a tutti gli effetti, non sarà altro che stigma sovrano di vacuità e miseria dal punto di vista di tutta quella cultura la cui più grande ambizione sia la sincerità, lo svuotamento di ciò che grava il proprio cuore nell’informe accumulo sociale di confessioni e rivelazioni il cui aspetto, privo di una forma che lo modelli, non apparirà molto diverso da quello che scarti e deiezioni assumono senza lo scandaglio di quella straordinaria profondità “marginale”, tesa a scardinare tanto l’ego quanto la socialità, che impregna l’opera e il pensiero di autori decisivi come Artaud o Bataille.

Testori ne parla con grande acutezza: il consolidarsi, negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, di una «forma aperta» nell’espressione artistica, in particolare in ambito cinematografico, non fa altro che rimuovere, per naturale dialettica, tutte quelle opere rivendicanti per sé natura conchiusa e catafratta, relegandole come Crono su una remota isola dei beati: in effetti, scegliendo un anno a caso, per esempio il 1965, sembra di primo acchito impossibile immaginare divario più forte fra il film realizzato allora da Visconti, Vaghe stelle dell’Orsa, e quelli di un cineasta più giovane come Godard, che quell’anno ne dirige due, Alphaville e Pierrot le fou, quest’ultimo senza ombra di dubbio fra i più belli di quel decennio.

Ma qualsiasi considerazione di questo tipo, a proposito di Visconti, non può che addurre ragioni superficiali: sarà necessario, a chi non voglia limitarsi a tale trivialità, compiere una discesa nel mondo ctonio, in quei «luoghi etruschi» nei quali D.H. Lawrence vide l’intreccio fra visibile e invisibile, mondo dei vivi e dei morti, e che non a caso è proprio il luogo dove si svolge la vicenda di Vaghe stelle dell’Orsa; a ragione, Testori individua una frattura nello strato più profondo della vita di Visconti, per giungere ad avvertire il quale è necessario permettere nuovamente alle forme animali di essere contemporaneamente concrete e simboliche, non paralizzate in un’allegoria troppo rivelata ma indicanti, nella contiguità condivisa con l’essere umano, universi per nulla antropomorfici scavati nella profondità di quest’ultimo. È attraverso la pittura di Géricault che Testori riconosce la natura, allo stesso tempo erotica e infera, del fanatismo che avvince Visconti al mondo equestre, natura la quale non potrà caratterizzarsi che per la sua assoluta mobilità e capacità di assumere fisionomie e aspetti del tutto differenti nella vita e nell’opera del regista, purtuttavia mantenendo una coerenza formale di fondo la cui sintesi, se si volesse usare un’immagine, sarebbe: la tensione che lega e intreccia la superficie levigata e plasmata di un metallo, un’armatura perfettamente modellata e lavorata si potrebbe dire, alla massa purulenta e suppurante di carne e interiora che la sua fredda lamina ricopre e scherma. Testori sa perfettamente di che cosa sta parlando: il lavoro messo in atto dall’opera di Gadda, modello e punto di partenza, elide la natura meramente rappresentativa che la lingua aveva perlopiù ricoperto nella scrittura letteraria, rendendola in questo modo un organismo vivente con un’archeologia e una storia non più dissimulate; e scatenando così, attraverso l’apertura di temporalità e dimensioni gigantesche e deformanti nella materialità della parola, una modificazione radicale della visione, della percezione, del modo di “essere nel mondo”.

In Visconti, la fuga da sé stessi, l’esilio dalla propria condizione e natura, questo slancio che fin dalla prima giovinezza ha aperto una ferita nella compattezza della sua vita, non potrà fare a meno di confondere i propri lineamenti con la morte, con la dissipazione e l’ablazione di sé che avviene attraverso l’eros e la solitudine; allo stesso modo, in Testori, ha torto Arlungo (figura dell’usurpatore ne L’Ambleto) a pensare che la «carnalidà mascara el vero ‘copiamento et el vero ligamento che è de marca politega e zovversiva»: il polo dell’eros e quello della sovversione non vivono di opposizioni o dissimulazioni, bensì in forma di gaddiano gliommero, nel cui ambito dimensioni temporali e spaziali sono abolite a favore di una convivenza paradossale.

Le pagine straordinarie di Luchino, lo si accennava poc’anzi, appaiono in un momento delicato: per Testori, la radicalità cristiano-anarchica, la volontà di attraversare a tutti i costi la carne nei suoi aspetti più opachi per sprofondare così nella lacerazione della propria umanità, con la speranza assurda di trovare in fondo ad essa una ferita che non sia più tale, bensì apertura originaria – in una parola, il tragico, nella sua accezione più profonda e universale, collimerà assai malamente con le tendenze contemporanee, concepite in base alla geometrizzazione delle relazioni, all’irreggimentazione dei rapporti, alla distanza che annulla la vischiosità e il pericolo (in questo senso, esemplari appariranno le pagine dedicate ai vespasiani o all’inevitabile erezione provocata dalle occhiate di Tadzio in Morte a Venezia, «unte di brividi, di seduzione, di paure»); in modo del tutto affine, per Visconti, l’apparizione inattesa, «dalla ludica corazza rinascimentale» costituita dal blasone e dal prestigio, dello «stomaco, del ventre e del sottoventre d’un cavernicolo», non farà altro che gettarne l’opera al di fuori dei canoni estetici contemporanei, estremamente squadrati e poco inclini alle ambiguità.

E proprio per tali ragioni queste pagine, oggi, appaiono così importanti. Forse, anche per evitare la miopia nella quale incappò persino un critico acuto come Alberto Arbasino, dopo un primo periodo di ammirazione, con le sue critiche all’opera di Visconti, definite «simposi d’antiquariato» o «passive illustrazioni». A Visconti, per disciogliere gli attacchi, sarà sufficiente formulare un apoftegma di aristocratica concisione: «Arbasino, con tutta la sua preparazione culturale, in realtà è rimasto un provinciale di Voghera malato di esterofilia, per cui qualsiasi cialtronata vista nel West End gli sembra caviale».

Giovanni Testori, Luchino, a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, 2022, pp. 416

Immagine: Un vecchio proiettore cinematografico. Crediti: worradirek / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Arbasino#Gadda#cinematografico#regista