In un’intervista realizzata da Treccani Web TV, con la consueta ironia Umberto Eco individuava due funzioni del programma Erasmus, una linguistica e una sessuale: molti giovani che hanno seguito il programma, raccontava, si sono poi sposati all’estero, e tutti hanno imparato a superare la barriera delle lingue, apprendendone almeno una seconda e acquisendo quel polilinguismo – la capacità di comunicare anche in lingue che non si conoscono alla perfezione – che il filosofo considerava il destino degli europei.

Eco espresse più volte entusiasmo nei confronti del programma, a cui attribuiva la creazione della prima generazione di veri e propri cittadini europei, e lo avrebbe esteso anche alla formazione professionale, per renderlo meno elitario: esiste un substrato culturale comune in Europa, un sentire comune, e l’Erasmus è il modo migliore per scoprirlo e lo strumento più valido per educare a un’identità europea.

Stesso entusiasmo di Eco, ha conservato colei che è considerata la prima ideatrice del programma, l’accademica italiana Sofia Corradi, che fu mossa tuttavia in origine da un intento molto più pragmatico, quello di offrire ai giovani la possibilità di viaggiare e studiare all’estero, come lei aveva avuto la fortuna di fare, ricevendo però anche un riconoscimento burocratico, che a lei era invece stato negato: tornata in Italia dopo una borsa di studio di un anno in giurisprudenza alla Columbia University, nel 1958, si era vista costretta a ripetere tutti gli esami. Divenuta dunque nei primi anni Sessanta consulente scientifico della Conferenza dei rettori delle università italiane, anche grazie alla collaborazione del suo presidente Alessandro Faedo, matematico e rettore dell’Università di Pisa, iniziò a diffondere la sua idea dapprima tra gli accademici italiani, poi in Francia e infine in ambiente europeo: non si trattava solo di sprovincializzare i giovani, e di offrire opportunità anche a quelli meno abbienti, ma di rendere meno provinciali le stesse università, superando un’impostazione che Corradi definisce “proprietaria” delle cattedre e delle materie di studio, costringendole così in qualche modo a un’opera di “traduzione culturale”, simile per certi versi a quanto l’Unione Europea deve fare per armonizzare le legislazioni nazionali.

Il lavoro fu naturalmente enorme: politico, culturale e pratico nello stesso tempo. Dall’idea iniziale, annotata da Corradi in un promemoria presentato da Faedo alla conferenza italo-francese dei rettori riunita a Ginevra nel 1969, alla sua realizzazione trascorsero infatti poco meno di vent’anni. Bisognava preparare le tabelle di equivalenza dei singoli esami tra i vari atenei, un lavoro appunto non solo burocratico, ma di traduzione culturale e scientifica dei diversi curricula, e poi convincere il mondo politico e quello – non meno ostico – dell’accademia.

Un primo risultato fu nel 1976 l’approvazione da parte della Comunità della risoluzione che incoraggiava gli scambi universitari tra i diversi Paesi, ma solo nell’anno accademico 1987-88 l’Erasmus ebbe finalmente inizio, con la partecipazione di 3244 studenti di undici diverse nazionalità: una cifra minuscola rispetto alle successive, che hanno visto coinvolti mediamente 300.000 studenti all’anno provenienti da trentatré Paesi, per un dato complessivo di circa 9 milioni di ragazzi in un trentennio.

Come Eco, anche Corradi tuttavia si sarebbe attesa una maggiore estensione del programma: rispetto all’attuale 5%, vorrebbe che il 90% degli studenti vi aderisse, affinché «gli aspetti positivi del programma incidano sull’intera opinione pubblica e non su una ristretta cerchia di studenti»; ossia affinché l’occasione di sprovincializzarsi sia offerta non solo a una minoranza di universitari, ma a un numero di persone così consistente da essere capace di influenzare anche la mentalità nei Paesi di provenienza.

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