«Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto»

(Eduardo Galeano)

C’è stato un tempo in cui i giornalisti raccontavano storie, lo facevano con gratitudine, lo facevano con tanto rispetto nei confronti dell’intervistato, conquistavano la sua fiducia, tiravano fuori la meraviglia, dalle parole e dai volti. Tornavano a casa grati e interi. Non tradivano la fiducia e la confidenza di chi gli affidava dei pezzi di verità, seguivano l’istinto e il loro sguardo innocente, intercettavano con umiltà, nel giornalismo, quello che giornalismo non era, o forse l’essenza più vera della professione, libera da ogni scuola ed etichetta, libera da ogni limite, regola, imposizione. Forse quel tempo non c’è più, forse però siamo noi che non siamo più in grado di cullarlo e farlo crescere. È stato il tempo degli uomini non comuni, è stato il tempo di Maradona e Gianni Minà, per esempio.

«Non sarò mai un uomo comune» (p. 73) è il titolo dell’ultimo libro del giornalista pubblicato da Minimum Fax (Maradona: «Non sarò mai un uomo comune». Il calcio ai tempi di Diego): è una frase di Diego tratta da una delle interviste riportate tra queste pagine: erano, sì altri tempi. Eppure… ce lo ripetiamo tante volte, come se oggi non fosse più possibile vivere come si viveva un tempo, al tempo di Diego. In alcuni casi è vero, in altri è retorica, mascherata da luoghi comuni (anche perché, anche al tempo di Diego, il mondo era un posto complicato, come oggi e forse anche di più). Retorica di comodo, non retorica del cuore, come quella che ha mosso la vita di quest’uomo carico di prodigio e dolore («Fu quella una scelta di orgoglio che lo premiò al mondiale messicano, vinto praticamente da solo, ma da allora Diego non fu più capace di ripetere quell’exploit con la stessa intensità. D’altro canto la leggenda del campione già conviveva con le chiacchiere della gente e le favole metropolitane, p. 21»), di riscatto e polvere («La rivincita di un bambino nato e cresciuto a Villa Fiorito», p. 17), di scomode verità, bugie profonde, bellezza sincera  («Io questo sentimento lo provo, per questo sono contento di avere scelto Napoli, città mi dicono, disastrata, in cerca sempre di un modo di vivere eppure capace sempre di sopravvivere, di essere felice con poco, magari solo con un palleggio e un gol di Maradona. E allora io adesso a Napoli, come ieri a Barcellona, certi doveri verso la gente so di non poterli dimenticare. E se tu dici che questa è retorica, io che ho fatto solo la scuola dell’obbligo ti dico che chiunque ha qualcosa dentro, cioè dei sentimenti veri, è un po’ retorico», p. 27).

Chiunque ha qualcosa dentro, cioè dei sentimenti veri, è un po’ retorico

Maradona era pieno di sentimenti, è morto portandoseli tutti dentro: triste, solitario y final («Dio: è l’unico in cui credo, perché a chi mi sta vicino non credo», p. 79). In queste pagine Minà lo racconta come solo lui ha saputo fare, come pochi sapevano fare (come qualcuno sa fare anche oggi). Lo racconta con quel garbo e quel passo indietro che ha contraddistinto tante volte la sua voce e la sua penna, con «l’irresistibile faccia tosta dei timidi che non arretrano di fronte a niente», incontrando i più grandi personaggi del Novecento, e restando nel cuore di quella storia che gli stava a cuore, raccontata da dentro, con una passione sincera, col passo elegante, tenero, dal battito leggero come quello della sua amata musica sudamericana. Minà ha intercettato ogni Sud del mondo e lo ha fatto proprio e Diego questo lo sapeva («Ho condiviso personalmente la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia 90», p. 9).

Eduardo Galeano diceva così di Maradona «continuava a commettere ormai da anni il peccato di essere il migliore, il delitto di denunciare a viva voce le cose che il potere ordinava di tacere, e il crimine di giocare alla mancina che, secondo il Piccolo Larousse Illustrato significa “con la sinistra” e significa pure “al contrario di come si deve fare”» (p. 22). Diego le cose le faceva spesso, un po’ tutte al contrario di come si dovevano fare, come chi è dotato di cuore e talento. Ma il cuore e il talento possono essere una maledizione, anche e soprattutto per chi voleva solo giocare a pallone divertendosi e facendo divertire, anche per chi aveva danzato sul rumore sottile della pelota («il calcio ha un suo rumore, un suo profumo, una sua vibrazione. È un sentimento popolare, te l’ho detto», p. 23), per chi collezionava prodezze, ma si scopriva poi incapace, fragile, perso («Nel campo con il pallone tra i piedi io so chi sono, fuori ‒ e l’esperienza spagnola lo conferma ‒ potrei non riuscire a dominare la mia vita, potrei essere vittima di insicurezze. Io sono un sentimentale, un po’ chioron (“piagnone”), come si dice in Argentina. Quando ho saputo del passaggio sicuro al Napoli ho pianto, e anche quando ho salutato mia madre dopo le brevi vacanze del mese scorso. Piangere fa bene se poi nel tuo lavoro sei caparbio, tenace, più forte delle avversità. Io lo sono», p. 29).

L’isola, che non lo sai se c’è

L’isola che forse nessuno sa com’è («Nel bene e nel male, Cuba rischia di rimanere sempre e solo una proiezione inconscia delle nostre frustrazioni», Saverio Tutino, Linus, 1978), tra mito e tentativi di smascheramento, l’isola che Diego ha amato («Quando vedi tante cattiverie contro un popolo lo fai eccome, il tifo per Cuba», p. 106), l’isola in cui solo Minà (uno che la sua isola l’ha sempre cercata), forse, poteva incontrarlo davvero,  perché era l’angolo di mondo adatto per un eroe come lui («È più forte di me, Gianni: io non sono Superman, io non sono Batman, gli eroi degli americani che non muoiono mai!», p. 77), un campione vero («Ma io penso che fossero tutte fesserie. Non è che un campione debba vincere per forza. Un campione è un campione e basta!», p. 101), un uomo con tutte le sue contraddizioni («Il campione che non faceva male a nessuno salvo che a sé stesso», p. 30), uno che non ha mai fatto la vittima («E guarda io non faccio la vittima. Nessuno mi ha mai puntato la pistola alla testa. La droga l’ho scelta io, ma non ne faccio una bandiera, tutto il contrario: la droga è la realtà peggiore che ci sia al mondo», p. 75).

Difesa dell’allegria

«Io meritavo rispetto perché avevo regalato allegria alla mia gente» (p. 131) dice Maradona a Minà, «E mi scuso con Il Mattino se la felicità che il calcio di Maradona mi ha regalato mi ha preso ora la mano nello scrivere» (p. 139) scriveva Minà di Maradona, perché Maradona è stato, in ultima analisi, il diritto di difendere l’allegria, come scriveva Mario Benedetti

difendere l’allegria come una bandiera

difenderla dal fulmine e dalla malinconia

dagli ingenui e dalle canaglie

dalla retorica e dagli arresti cardiaci

non ci è riuscito sempre, non ci è riuscito col fisco, per esempio, anche se da morto ha scoperto di avere ragione («in altre parole, per il solo fatto che Diego era in Argentina con altri problemi e non ha mandato qualcuno al tribunale a presentare un ricorso, trent’anni dopo gli sono stati chiesti quaranta milioni di euro», p. 120), non ci è riuscito alla fine, ma chi lo ha amato, chi ha amato la sua vicenda di uomo (Diego è trasversale, oltre credi, ideologie, generi) appena sente il suo nome, chiude gli occhi e dimentica tutto il rumore del mondo, i fischi e le chiacchiere, le accuse e le doppie morali: vede solo i suoi gol, i suoi miracoli, sente solo il rumore del pallone, nient’altro («Non te ne dolere. In fondo, hai una possibilità che pochi hanno quando scendono in campo con un pallone fra i piedi: sai inventare, sei capace di chiudere una bocca che ti insulta con un prodigio che scatena l’applauso», p. 70). Perché gli uomini e le donne dotate di sentimenti veri hanno bisogno di eroi impolverati e ammaccati, fragili e imperfetti, di eroi che muoiono (anche se non se ne vanno mai), di eroi come un uomo comune che non sarà mai, non è stato mai, un uomo comune («Nell’immaginario della gente, proprio perché è un ragazzo di strada che è arrivato là dove non gli era permesso, Diego non è un reietto, ma solo uno che si è bruciato per aver volato troppo alto», p. 175).

Gianni Minà, Maradona: «Non sarò mai un uomo comune». Il calcio al tempo di Diego, Minimum Fax, 2021, pp. 194

Immagine: Diego Armando Maradona (16 luglio 2018). Crediti: Andrew Makedonski / Shutterstock.com

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