Intervista a Matteo Mezzadri
«Mi piace l’idea di un’arte che riesca a trasformare lo spazio fisico, facendolo diventare altro».
La conversazione con Matteo Mezzadri parte inevitabilmente da Rethink the city, la straordinaria installazione del progetto Città Minime, composta da seimila mattoni forati, che campeggia nello spazio espositivo denominato Soglia Magica, situato all’ingresso del Terminal 1 dell’aeroporto di Milano Malpensa. Chiunque vi passi, infatti, non si sottrae dal fermarsi ad ammirare lo skyline della meravigliosa città immaginaria creata da Mezzadri. Nato a Parma, laurea in Scienze politiche in tasca, a un passo da quella in Storia contemporanea, appassionato di disegno fin da bambino, quando Matteo ha scelto di darsi completamente all’arte non immaginava che un giorno le sue opere sarebbero state protagoniste nelle aree più insolite della galassia urbana:
«Avere a che fare con un pubblico più vasto – di non addetti ai lavori – è una sfida estremamente stimolante. A Malpensa hanno stimato un transito di cinquemila presenze al giorno».

Matteo Mezzadri, Rethink the city, in Soglia Magica, 2022 (foto per gentile concessione dell’artista)
Matteo, stiamo finalmente assistendo a una sorta di dinamismo progettuale che punta a dirottare l’arte nei centri più nevralgici della quotidianità
Il tentativo di portare l’arte nei luoghi non convenzionali, più vissuti, che non siano la galleria e il museo, sta cambiando le prospettive visive e culturali della realtà contemporanea. Gli interventi degli street artist, o, in generale, degli artisti che per primi si sono occupati di arte pubblica, hanno fatto da apripista. Adesso è del tutto normale inciampare in opere di qualità – che siano installazioni visive, o murales – in spazi urbani. Mi accorgo che si sta lavorando molto alla qualità dell’arte nelle aree di grande transito. Ed è un bel segnale.
Decisamente. Non più soltanto musei e gallerie, ma luoghi aperti al pubblico, più accessibili e inclusivi
Luoghi che permettono a tutte le persone di avvicinarsi all’arte contemporanea, che con il suo germe fecondo produce miglioramento sociale. L’arte contemporanea è sempre stata l’avanguardia della cultura, e più le persone vi entrano in contatto, più la società avrà una visione della realtà più complessa e attuale. L’arte, non dimentichiamolo, ha l’obiettivo di cercare nuove prospettive.
Come nasce il progetto Città Minime?
Da un processo artistico lungo, iniziato a New York nel 2009. Osservavo il quartiere Upper West Side e le sue architetture a mattoni bruniti. Ho pensato dapprima di farne un video, ma successivamente ho declinato l’idea a progetto fotografico, facendo le prime installazioni in studio. Il notevole riscontro di pubblico e gallerie mi ha poi spinto ad approfondire il tema. Nel 2016, infatti, l’architetto e curatore Massimo Ferrari mi ha invitato a realizzare la prima, grande installazione a Mantova, nel cortile della Casa del Mantegna, fino ad arrivare alla Soglia Magica di Milano Malpensa, su invito del curatore Matteo Pacini, e alla Biennale di Venezia, presso il padiglione del Camerun, grazie ai curatori Sandro Orlandi Stagl e Paul Emmanuel Loca Mahop.
Né fotografo né video-maker. Preferisci mettere in relazione una serie di linguaggi: dalla fotografia al video, dall’installazione alla scultura
Mi sono sempre divertito a utilizzare più strumenti, senza focalizzarmi su una sola forma espressiva. Il mio scopo è quello di rappresentare la complessità e l’ambiguità del mondo contemporaneo e, per farlo, credo sia utile creare percorsi artistici articolati e immersivi.
Fortemente sedotto anche dalla storia, nel progetto La Materia Oscura hai fatto esplodere delle statue classiche
La storia è un grande imprinting culturale. Il rapporto fra passato e presente è per me fondamentale, anche nella ricerca artistica. La storia è un tema che ricorre spesso. Voglio precisare che le sculture fatte esplodere erano, ovviamente, delle riproduzioni realizzate a Torino con gesso e fibre vegetali. Il lavoro è nato nel 2018, su invito del Museo archeologico di Venezia. Mi chiesero di immaginare qualcosa per le loro sale. Ho proposto, perciò, di far esplodere le statue conservate al loro interno. Proiettate su schermi collocati nella sala degli imperatori romani, le deflagrazioni – realizzate grazie alla collaborazione con un artificiere – sono state riprese con telecamere ad altissima frequenza. Nel lentissimo processo, si vede la materia che resiste fino poi ad abbandonarsi e cedere, con un cambio di forma molto interessante.
Perché hai scelto proprio di farle saltare in aria?
Perché nella deflagrazione la scultura si attualizza. Nello stesso momento in cui stai per perderla per sempre, ne percepisci maggiormente l’importanza e anche la bellezza.

Matteo Mezzadri, Augusto, progetto La Materia Oscura, 2018 (foto per gentile concessione dell’artista)
È come un esercizio zen: saper rinascere dalla distruzione?
Sì. Sono rimasto profondamente colpito dalle notizie sulle distruzioni dei siti archeologici di Sirte, in Libia, o di quello di Palmyra, in Siria, da parte delle milizie dell’Isis. Ho voluto così lavorare sull’atteggiamento antico, ma ancora purtroppo attuale, della furia iconoclasta di un popolo ai danni di un altro. È un lavoro forte e drammatico, ma dal punto di vista formale ne sono uscite immagini dense di poesia. È come se l’opera non andasse nel nulla, ma diventasse altra: non muore, ma si rigenera. È stata un’operazione rischiosa, costosissima, ma, dal mio punto di vista, perfettamente riuscita.
I nostri sguardi sono sempre più intasati da immagini. Ci scontriamo quotidianamente con un’infinità di contenuti, anche di altissima qualità. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
A volte si ha quasi difficoltà a proporre qualcosa che possa bucare la ridondanza e l’assuefazione visiva delle persone. È difficile scontrarsi con le grandi produzioni, non solo prettamente artistiche, perché hanno innalzato notevolmente le aspettative del pubblico in termini di impatto emotivo e spettacolarizzazione delle immagini. Sono convinto, però, che l’artista debba raccogliere questa sfida e produrre, non tanto per il gusto di farlo, ma per mettere in circolo contenuti nuovi che vadano anche oltre il sentimento comune, e che perlustrino strade non ancora battute. Il nostro compito è quello di aggiungere alla forza visiva di un’immagine un lampo che possa creare dei cortocircuiti mentali, far riflettere, e andare oltre quel che la grande comunicazione di massa propone. Produrre opere potenti e, possibilmente, innovative, è il traguardo al quale non dobbiamo mai rinunciare quando decidiamo di realizzare un nuovo lavoro. Mi piace riflettere sul mondo contemporaneo, lo faccio in maniera istintiva, attraverso i mezzi che ho a disposizione.
Cosa prevale maggiormente oggi nell’illimitato circuito dell’arte?
Una tendenza al gigantismo, sicuramente. Lo si vede nei grandi eventi artistici. È il budget che fa la differenza. È come se un’opera decisiva, che merita l’attenzione del pubblico, debba partire da un budget alto e da produzioni faraoniche. Se l’idea è buona e si sposa a un budget importante, può nascere qualcosa di solido e duraturo; ma se manca quel guizzo, quel lampo di cui parlavamo prima, però, anche le produzioni molto costose non sono in grado di tenere in piedi l’opera.
Affrontiamo un’annosa questione: gli artisti italiani sono ancora penalizzati?
Gli artisti italiani non riescono a dare tutto quello che potrebbero potenzialmente dare. Non hanno dietro le gallerie che possano fornire loro quella benzina di cui il motore dell’artista ha bisogno. E quindi sono molto penalizzati rispetto ad altri artisti che si muovono in mercati internazionali più solidi e strutturati come quello americano ad esempio. Noto, però, che l’isolamento al quale eravamo costretti anni fa sta venendo meno grazie ai nuovi strumenti digitali: oggi, grazie ai social, è molto più facile uscire dai confini geografici. Con questo non voglio dire che il viaggio e la conoscenza non siano importanti, lo sono eccome, ma bisogna ammettere che le piattaforme on-line ci permettono di vivere una sorta di ubiquità, rendendoci più globali. L’Italia è piena di artisti importanti che riescono a imporsi a livello internazionale senza fare grandi numeri, purtroppo, ma difendendosi benissimo.
Negli ultimi anni le tecnologie digitali sono state il motore di un cambiamento che ha progressivamente interessato la sfera sociale e quella culturale, avvicinando sempre più le persone all’arte
Sì, è una naturale evoluzione che sta permeando a fondo la società civile. Non ci vedo nulla di male, anzi. Il mercato dell’arte mette in atto da sempre delle nuove declinazioni per creare valore. Una grande installazione come quella di Malpensa, per esempio, all’interno di quello spazio, che potrebbe sfuggire alla logica classica dell’arte e dei suoi canali, è diventata virale. Mi piace vedere che le persone condividono sulle proprie piattaforme dei contenuti di arte contemporanea.
Può essere anche un pretesto per ristabilire l’ordine: i social non sono un campo di battaglia in cui lottare con il coltello fra i denti e la bava alla bocca, ma un’area sulla quale liberare e diffondere bellezza. La condivisione, in fondo, è una grande risorsa
Esatto. È per questo che mi piace molto la figura dell’influencer culturale. È un buon segnale. C’è bisogno di qualità anche nei contenuti del web. Penso che le persone ne abbiano bisogno. Mi sembra che in Italia, finalmente, l’arte contemporanea possa contare su un substrato culturale maggiormente diffuso e sul quale provare a crescere. Forse perché l’arte inizia a diffondersi nelle strade, nelle piazze, nei posti più insoliti. E inevitabilmente anche sui social.
C’è da dire, però, che alcuni consumi contemporanei contribuiscono ad ampliare l’appiattimento culturale. L’arte, però, remando in direzione avversa, prova a fare la differenza. E tu lo sai bene
Questo per me è fondamentale, ma non realmente intenzionale. Quando mi approccio a un lavoro nuovo non cerco mai di educare e di alzare il livello culturale del mio pubblico. Parto sempre da me stesso, perché i lavori che mi interessa produrre derivano dalle mie riflessioni sul mondo contemporaneo. Forse sono abile nel proporli, a dar loro una forma, un packaging, ma tutto parte sempre egoisticamente dalle mie riflessioni più intime e stringenti sul contemporaneo. La speranza è che incontrino la sensibilità altrui e che suscitino una riflessione oltre che un’emozione. Ma è secondario, in realtà penso sempre alla mia urgenza espressiva e a dare una forma alle mie idee. Ed è quello che ogni artista, in fondo, fa.