Grazie alla funzione “Ricorrenze” di Wikipedia siamo in grado di sapere tutti gli eventi principali - nascite, morti e avvenimenti di peso - accaduti in un giorno prescelto. Volendo potremmo pertanto crearci quotidianamente degli anniversari da celebrare a prescindere da quelli ufficiali. È con questo proposito che intendo ricordare i 120 anni della stesura della premessa al volume Le Rime di Francesco Petrarca restituite nell’ordine e nella lezione del testo originario (Firenze, Barbera, 1896) di Giovanni Mestica. Nato a Favete di Apiro (Macerata) nel 1831, Mestica aveva associato all’attività di studioso (ancora attuali le sue ricerche su Traiano Boccalini e Giacomo Leopardi) quella di politico e in tale veste fu eletto alla Camera per ben cinque legislature - a partire dalla XVII, nel 1890, fino alla XXI -, per il collegio di San Severino Marche.

Il 20 novembre del 1895 egli termina la premessa sopra menzionata. Si tratta di un testo di straordinaria importanza perché Mestica è il primo a rendersi conto che nell’autografo dei Rerum vulgarium fragmenta, oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana con la segnatura Vaticano latino 3195, Petrarca non era più soddisfatto dell’ordine che aveva dato agli ultimi trentuno testi nel manoscritto, e aveva pertanto deciso di disporli in maniera diversa grazie all’inserimento di numeri arabi posti a margine di ogni componimento. Eppure nei cinquecento anni di esistenza del Canzoniere, nessuno si era accorto di questa ultima volontà d’autore: né i copisti che tra fine Trecento e Quattrocento avevano trascritto centinaia di volte l’opera, né tantomeno coloro che ne avevano pubblicato a stampa il testo, tra i quali basta menzionare l’edizione curata da Pietro Bembo de Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha, uscita nel 1501 per i torchi di Aldo Manuzio (del quale quest’anno ricorrono i 500 anni dalla morte, per tornare alle celebrazioni ufficiali).

Scrive il Mestica: «Ciò che nel Canzoniere riuscirà al tutto nuovo è la distribuzione degli ultimi trentuno componimenti autografi, risultante da numerazione su i margini, la quale per segni evidenti si deve attribuire al Petrarca stesso. E difatti i numeri sono di forma uguale a quelli che spesso ricorrono in altri autografi suoi e specialmente nel Codice vaticano latino 3196 [NdA: è il cosiddetto “codice degli abbozzi”]; alcuni di essi qui sono scritti vicino a una o più abrasioni, manifesti indizi dei pentimenti successivi dell’Autore nel fissar la nuova distribuzione che andava eseguendo. Con questa distribuzione, indicata parimente per numeri o a dirittura accolta in qualche Codice, e, parzialmente, in alcune delle antiche Stampe, si ha uno svolgimento ben più conforme al sollevarsi del Poeta sempre più verso Dio; e gli ultimi cinque Sonetti in ispecie preparano l’incesso trionfale della Canzone alla Vergine».

Ma la portata di questa edizione non si limita qui: con straordinario fiuto filologico, Mestica individua alcuni codici della tradizione manoscritta del Canzoniere utili a ricostruire le vicende redazionali dell’opera anteriori all’autografo, inserendo queste varianti nell’apparato a piè di pagina. Ben prima di tanta critica novecentesca, Mestica ritiene che «nessuno de’ nostri poeti ha tanto lavorato in correzioni, per quello che ne so, quanto il Petrarca: il quale sulle sue Poesie volgari, pur facendo mostra di non curarle, tornava e ritornava con la lima per lunghe sequenze di anni e anche dopo una ventina: onde per lui, in tale rispetto, l’arte di scrivere si può dir davvero l’arte dei pentimenti».

Certo, se da un lato oggi ci sembra un’esagerazione la definizione di «Dio Mestica» che di lui diede Fortunato Pintor in una lettera a Giovanni Gentile del 1898, proprio in relazione a questa straordinaria edizione critica del Canzoniere, dall’altro saremo felici se il nome di questo studioso, ormai misconosciuto, tornasse a essere noto non solo tra gli addetti ai lavori.