Uno degli aspetti forse più interessanti del caso Dostoevskij scoppiato qualche tempo fa nello stagno del dibattito nostrano riguarda la sua natura grottescamente controproducente. Non solo, né forse in primo luogo, per ragioni di carattere per dir così metafisico (il valore universale di Delitto e castigo) o di assai più prosaico buon senso (l’idea, poniamo, di un dibattito Dostoevskij/Ščevčenko, Taras, non Andrij, sull’onda di un’invasione scatenata da Putin è per lo meno balzana), ma perché ignora il fatto che, in una società come quella russa, caratterizzata da un rapporto tutt’altro che sereno tra il potere politico e il dibattito pubblico (che pure, incredibile dictu, esiste), è proprio nella letteratura, e nella descrizione che quest’ultima offre sia della società sia dei singoli che essa compongono, che è possibile rinvenire lo spazio nel quale andare in cerca di analisi e anamnesi di modelli antropologici e problemi strutturali a cui il tempo ha sì fornito nuova foggia, ma la cui sostanza è rimasta, in misura sinistramente notevole, di fatto immutata.

Nel Burmistr, uno dei racconti che compongono le Memorie di un cacciatore, Ivan Turgenev pennella il ritratto agghiacciante di un proprietario terriero di mezza tacca (una caricatura deformata, e in sedicesimo, di Evgenij Onegin) il quale, benché parli impeccabilmente francese, si dimostri un anfitrione inappuntabile e vesta i suoi domestici, e se stesso, all’ultima moda inglese, incarna il prodotto più conseguente – e spregevole – di un sistema sociopolitico schiavista, che di fatto di questo personaggio ripugnante avalla, tutelandole, le attitudini più sadiche sotto il mantello di un paternalismo tanto zuccheroso quanto ipocrita.

Nulla del sottotesto – che è poi in realtà il messaggio – di questo raggelante capolavoro di stile e di diplomazia (una critica sociale e antropologica feroce mascherata, vista la censura imperante all’epoca, sull’onda lunga, si noti, della catastrofe in Crimea – quella di metà Ottocento –, da innocuo bozzetto naturalistico) si capisce se lo si tratta (solo) come un’opera letteraria: Turgenev, o Dostoevskij, come classico.

Per capire un Paese, specie uno con la storia della Russia, da dove viene, a che punto del suo cammino si trova e dove potrebbe dirigersi, a voler tacere dell’elaborazione di, per quanto ritenuti impellenti, doverosi, se non sacrosanti, interventi nei suoi confronti dall’esterno, è obbligatorio conoscerlo, piaccia o non piaccia.

Ecco perché il recente Modello Putin di Mattia B. Bagnoli, corrispondente Ansa da Mosca, si candida, assieme a La frontiera di Erika Fatland e pochi altri, a prezioso breviario contemporaneo per quanti si trovino a vario titolo a disagio con una retorica sempre più aggressiva nei confronti della Russia (e della Russia nei confronti del resto del mondo), desiderino allo stesso tempo capire qualcosa di più di un Paese con il quale si deve fare i conti, specie per chi abbia la ventura di vivere in Europa, e che magari non abbiano tempo, modo, o le risorse, di accedere a una pur vastissima letteratura accademica a riguardo.

Il fatto che, sia detto per inciso, la prestigiosissima casa editrice Beck abbia commissionato, e pubblicato a prezzi tutto sommato accessibili, una storia della Russia in due volumi per un totale di oltre tremila pagine a cura di uno dei più autorevoli specialisti del mondo dice qualcosa sia della rilevanza delle relazioni bilaterali della Germania, ché dovrebbe sembrare ovvio visti i trascorsi, sia dello stato della politica culturale in altri contesti che con la Russia non sono affatto meno a che vedere, ma nei quali simili iniziative non sono nemmeno pensabili.

Chiaramente ispirato, per ammissione stessa dell’autore, da alcune delle figure più influenti del new journalism (Gay Talese su tutti), allo stesso tempo cronaca di un’esperienza di vita, inchiesta, corsivo e narrativa non fiction, il volume di Bagnoli presenta al lettore un esaustivo quadro di un regime politico già da tempo nel pieno di un difficilissimo processo di transizione, il quale però si è fatto (o, sulla scorta delle influenze provenienti proprio da quel contesto che si prefiggeva di plasmare, difficile dirlo, è divenuto) modello antropologico, dottrina geopolitica, visione del mondo e che c’è da attendersi avrà vita assai più lunga di quella del suo fondatore.

Certo, l’incognita del cataclisma ucraino (con il beneficio retrospettivo della lettura del capitolo sulla crisi bielorussa, pp. 285-300, e per inciso tutt’altro che risolta, benché scomparsa dai radar, una parabola tristemente scontata) e dei suoi sviluppi a breve e lungo termine, difficilmente prevedibili, in particolare sul fronte interno, getta un’ombra ominosa sui destini di quella stabilità interna sulla quale, sin dagli albori, l’ex agente del KGB di stanza a Leipzig ha puntato tutto, ma affrettarsi a legare i destini, se non di Putin del putinismo – i quali, Bagnoli lo mostra bene, sono entità omologhe ma non identiche – all’operazione militare speciale sarebbe miope.

Assai più cruciale è la partita economica, ovvero la dipendenza strutturale del Paese da un modello di sviluppo sostanzialmente predatorio legato all’estrazione di materie prime che rischia di renderlo una succursale di attori esterni e non di rado concorrenti (la Cina su tutti), con conseguenze nefaste, vista l’aria che si respira a Pechino, non solo per la Russia medesima, ma anche per parecchi tra i suoi avversari.

Questo perché è proprio a un sapiente dosaggio di benefici materiali, ideologia – tutt’altro che semplice imposizione dall’alto, ma bensì fortemente radicata in un patrimonio culturale la cui conoscenza dovrebbe essere un imperativo per ogni europeo – e (sempre più virulenta) repressione che si deve il consenso, tutt’altro che scemante, del blocco storico su cui si regge il potere di Putin e della sua cerchia, all’interno della quale, per altro – amara constatazione dell’autore e che andrebbe presa molto sul serio – Vladimir Vladimirovič non è nemmeno il peggiore.

In una formula, insomma, la grancassa mediatica intorno a Naval’nij e ai suoi (coraggiosissimi) collaboratori e attivisti, a partire dalla stoica Julija Naval’naja, dice assai più dei sogni eretici dell’Occidente di quanto non sveli di una parte, maggioritaria, persino a Mosca e Pietroburgo, della società russa.

Il pregio forse più evidente del saggio di Bagnoli è tuttavia l’ampiezza di respiro. Cronista sensibile, scrupoloso e indubbiamente colto (rara avis), l’autore ha parlato con una marea di persone, dai più quotati analisti geopolitici ai tassisti di Simferopoli, e le loro voci emergono tutte, alcune commentate, altre no, nelle pagine di questo accattivante diario di bordo, restituendo in misura non trascurabile, e a tinte vivissime, il caleidoscopio infinito di un Paese, non nuoce ricordarlo, che si estende attraverso undici fusi orari e che comprende al suo interno oltre duecento nazionalità riconosciute. Di più, Bagnoli ha viaggiato: dalla penisola di Jamal, culla di un titanico impianto di estrazione del gas liquefatto, a Čerskij, dove la famiglia Zimov si è dedicata alla ricostruzione dell’ecosistema del Pleistocene nel tentativo, benché su scala ridottissima sinora coronato da un sorprendente (ed emblematico) successo, di arginare un fenomeno, lo scioglimento del permafrost, di cui troppo poco si parla ma che potrebbe rappresentare il vero punto di non ritorno dell’Antropocene, fino in Siria, al centro della nuova strategia di potenza di Putin e della sua cerchia. Il surreale concerto capitanato da Sergej Roldugin nel teatro di Palmira, a 15 km dalle postazioni dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria), vale da solo il prezzo del libro.

Tra i deliri eurasisti di Dugin (e l’alleanza, sempre più suddita, con Xi Jinping), i rapporti incestuosi dell’Internazionale neofascista d’Europa – e non solo – con la banda del Cremlino, il soffocante clientelismo (tra le più sintomatiche eredità di un rinvigorito culto di Stalin), una torsione autoritaria sempre più evidente e l’assai poco edificante quadro della pacificazione, tramite satrapo, in Cecenia e nel Caucaso, l’esperienza della pandemia, per quanto vissuta da Mosca e con un’assicurazione sanitaria in tasca, serve a Bagnoli per ricordare al suo pubblico che, piaccia o no, la Russia non è un inferno distopico, bensì un Paese con una storia millenaria, per di più legata a doppio filo con quell’altro-da-sé occidentale (qualsiasi cosa il termine voglia dire) che a fronte dell’evoluzione, e talvolta involuzione, di quest’ultima non può, benché spesso vorrebbe, non chiamarsi cor_responsabile_; il che talvolta significa cor_reo_.

«Ciò che accade in Russia – conclude l’autore (p. 432) – si riverbera nel mondo».

Una ragione, tra le tante, non solo per leggere più Dostoevskij, anziché censurarlo, bensì anche, forse soprattutto, per leggere più di Dostoevskij. Gogol′ (un nome a caso) era ucraino – come Trotzki –, Larisa Rejsner polacca. Puškin, assieme a Lermontov e Tolstoj, ha scritto pagine fondamentali sul Caucaso e la letteratura sovietica brulica di personalità non russe etniche (russkie) ma non perciò a quel mondo estranee (rossjane). Nell’epoca del ritorno di fiamma dei più trucidi nazionalismi, anche in Russia, di certo non solo lì, indubbiamente un pro memoria salutare.

Mattia B. Bagnoli, Modello Putin. Viaggio in un paese che faremmo bene a conoscere, Varese, People, 2021, pp. 438

Immagine: Vladimir Putin (1 ottobre 2019). Crediti: Asatur Yesayants / Shutterstock.com

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