Da pochissimo sono state pubblicate dall’editore Penguin le lettere che lo scrittore di Lolita, Vladimir Nabokov, scriveva a sua moglie Vera durante i suoi spostamenti per il mondo. Queste lettere, tradotte in inglese, sono raccolte in un bel volume ricco di preziose note che sicuramente delizierà gli appassionati ed occuperà i ricercatori. (Letters to VéraPenguin Classics, curato e tradotto da Olga Voronina e Brian Boyd, settembre 2014).
Cari scrittori, siate avvertiti: se conoscerete la fama, non ci sarà nessun angolo della vostra vita privata sul quale non sarà fatta luce. Scordatevi di poter godere di un briciolo di vita privata, di intimità, come noi altri comuni mortali, nulla sarà scordato od omesso. Il ricercatore incallito, l’esperto di manoscritti (ormai anche digitali!) troverà tutto: diari, biglietti, email, e sì, anche le lettere che avrete inviato a vostra moglie e… le pubblicherà, svelando così ai posteri tutto ciò che considerate segreto, ad esempio, tutto ciò che davvero pensate riguardo ai vostri contemporanei, soprattutto i più conosciuti.
Ed ecco, quindi, una carrellata di perle preziose che Nabokov regalava regolarmente all’amatissima moglie Vera. Cominciamo con Sigmund Freud, eminente fondatore della psicanalisi. In una lettera scritta da Berlino nel giugno del 1926, Nabokov racconta con incurante ironia:“Ieri sera […] c’è stata una conferenza e una discussione su quel ciarlatano di Freud (in un dibattito ‘sulla donna moderna’, Karsavin tentava di dimostrare che gli uomini si rasano e indossano pantaloni larghi grazie all’influenza femminile. Profondo vero?)” (pp.58-59).
Nel 1930, questa volta da Praga, arriva invece un attacco verso un’opera di André Gide: “Ieri ho letto I Sotterranei del Vaticano (Les Caves du Vatican), un’assurdità terribile” (p. 165), ma fortunatamente, subito dopo Nabokov concede, con clemenza, che alcune parti del libro sono ben scritte.
Interessante è anche poter leggere il ridente ritratto dipinto da Nabokov riguardo ad alcuni circoli letterari che frequentava, sempre a Praga: “Ho conosciuto […] il ‘famoso’ poeta Rathaus […] Non avevo nessunissima idea di cosa dire a Rathaus, è difficile parlare a qualcuno il cui nome è ora divenuto sinonimo di poetastro. Tra l’altro mi ha anche detto: ‘Bene bene, sai che ti paragonano a me…’ Commovente e ripugnante. Hanno recitato molti giovani poeti e poetesse, sicché mi sono sentito esattamente come ai nostri ritrovi ‘poetici’: sono tutti la stessa cosa nauseabonda” (pp. 160-161).
Fortunatamente nell’ottobre del 1932, giungono da Parigi alcune note positive, questa volta riguardo alla Casa Editrice Grasset, dove Nabokov nota anche una fotografia dello scrittore D.H. Lawrence: “Sono tornato ora a casa da Grasset. […] Mi hanno dato proprio un bel benvenuto […] Lì è tutto molto semplice e piacevole […] ci si siede sui tavoli, si parla di carte, eccetera. Ci sono anche alcune foto senza cornice, tutte sgualcite e sciupate, appese ai muri. Una ritrae quel barbuto nasone di Lawrence con una ragazza giovane al suo fianco. Affascinante” (pp. 196-197).
Al di là di tutte queste succose chicche, l’aneddoto che ha già fatto notizia sul blog della London Review of Books  è quello riguardante il leggendario incontro del 1922 fra James Joyce e Marcel Proust, del quale esistono varie versioni discordanti e al quale Nabokov accenna brevemente in una lettera scritta alla moglie da Parigi nel febbraio del 1936. Nabokov si ricorda dell’episodio a causa dell’insistenza di uno dei suoi amici, Léon, che una sera gli propone di incontrare Joyce dopo cena, ma che, allo stesso tempo, dipinge questo possibile incontro con un tale clamore e con tali circospezioni da fare innervosire Nabokov che, quindi, finge di non avere tempo. Nella lettera a Vera, dopo aver descritto il comportamento di Léon, Nabokov confessa: “L’inutilità d’incontri del genere! Joyce ha incontrato Proust solo una volta, per puro caso; Proust e Joyce sono poi finiti sullo stesso taxi, e il primo continuava a chiuderne il finestrino che il secondo continuava ad aprire – hanno quasi litigato! Nel complesso, il tutto è stato alquanto noioso” (p. 267). Infatti, si dice che durante il loro incontro questi due miti letterari, invece di scambiarsi profonde verità estetiche o di iniziare qualche dibattito critico, si siano messi semplicemente a discutere dei loro acciacchi e dei loro malanni sotto gli occhi increduli dei rispettivi adoratori. Come diceva Flaubert, “Non bisogna toccare gli idoli”…
Il Nabokov che emerge da questa corrispondenza è un Nabokov impegnato, ambizioso, intraprendente, ma anche romantico e sognatore, un Nabokov che getta sul mondo uno sguardo talvolta tagliente ed ironico, ma che, allo stesso tempo, guarda sé stesso e la propria vita con una certa autoironia. Ad esempio, quando ormai è già professore negli Stati Uniti, Nabokov arriva per qualche lavoro in una nuova università. Il personale, vedendolo arrivare, non riconosce in lui il professore di russo che stava aspettando. Nabokov riferisce scherzosamente questo episodio alla moglie, commentando: “La fotografia non è stata spedita, quindi non sorprende che all’università si aspettassero un signore con la barba di Dostoevskij, i baffi di Stalin, gli occhialini di Čechov e il camicione di Tolstoj” (p. 464).
Bisogna ammettere che, leggendo le lettere di Nabokov a sua moglie, si prova, talvolta, un certo senso di colpa per aver invaso un dialogo dal quale avremmo dovuto essere per sempre esclusi. Ma, allo stesso tempo, questi scritti ci fanno dono di una voce limpida, di una schiettezza e di una spontaneità che possono esistere solo all’interno un rapporto profondo ed intimo; una voce che forse, senza queste lettere, non avremmo mai avuto l’opportunità di scoprire.