Se Naso fosse una canzone, forse, non sarebbe una canzone di Panella, ma quello che – nelle canzoni di Panella – resta tra le parole cantate e quelle non dette, quell’insignificante di ogni testo che assume significato a seconda di quello che potrebbe significare nelle orecchie di chi ascolta: si sa che ci vuole orecchio, che anche l’occhio vuole la sua parte, ma nella parte più profonda di noi sarebbe bene non metterci mai il naso, perché «cerchiamo di capire, di interpretare, ma ci sono cose che solo due persone sanno» (p. 132).
Ma Naso non è una canzone e neanche quello che resta, è un canto o il controcanto delle giornate ordinarie del giovane Panella che argomenta e argomente (perché mentire, a volte, è l’unica cosa da fare); è l’argot, la fraseologia misteriosa di chi sa che sul viso la sintassi non ha imperio e che è meglio giocare, fino quasi a parlare col naso senza dire – quasi – mai la verità («bisogna un po’ mentire per dire la verità. E questa stupida frase non è mia, credo sia di tutti», p. 123).
Naso è un diario, il diario di tutti quelli che sanno «fiutare l’aria che tira, sentire lo spirito del tempo, che è sostanza volatile, svapora, evapora, vola via e ha l’aria d’esserci», come scrive Lucio Saviani nella sua introduzione, cercando di fare disordine nell’arguto argot delle pagine del giovane Panella («Poi andavo a scuola e, seduto all’ultimo banco, scrivevo cose, per esempio ‘Naso’, durante le qualsiasi lezioni», p. 124) e delle sue voci che pensano e riciclano le letture giovanili («avrai notato minime tracce, briciole, unzioni, macchioline, gocce di adolescenziali letture scapestrate, Renard, De Amicis, Wilde, Rostand, Hemingway, Artusi, Stevenson, anche Pascoli qui nel titolo al piano di sopra squarciato da versi commoventi», p. 122), voci che si buttano sulla scena, cercano una forma dialogando e fanno i conti con quella perenne volontà di essere altro e altrove («il resto della testa era, come adesso, altrove», p. 14), con la nuda verità di essere diventati soprattutto sé stessi («tu, che a quel tempo ancora non eri il deficiente che ogni uomo poi diventa, tu, non fare il fesso perché lo sei sul serio, quindi non farlo», p. 116).
A naso, queste pagine non dimostrano niente, ma sono la storia inventata che rivela quello che c’è sotto: cadute («quel piacevole rumore di crollo innocente», p. 15); distanze brevi tra coppie minime («e ogni tanto tintinna per tremito e fremito», p. 17); volti che sono maschere, e una volta erano viso, quando «c’era una volta, e un po’ per tutti, la possibilità d’essere assenti» (p. 18); tentazioni di significare qualcosa, coraggio di andare oltre («Padre, fa’ il favore, allontana da me il significato, fammi andare a naso», p. 22); buio («con fumo, puzza di bruciato e buio», p. 29) e nasi che non sono apostrofi rosa tra parole abusate, ma virgole rosee delle narici che si fondono per respirarsi e insieme annullarsi in un unico bacio («baciando me, vedrai, guadagneremo un naso, il mio, che è il tuo nella cavità del mio. Per baciarti meglio, ecco perché», p. 37), per sprofondare più in basso di tutte le cadute che si sono succedute tra le pagine del Naso («Vogliamo sprofondare sotto il palco, cadere in basso come arredi dal soffitto? C’è un altro palco sotto di noi? Un altro spettacolo?», p. 110).
Naso è una cattiva lettura: superflua e indispensabile, è il peccato reiterato senza confini, fino allo sfinimento, che a un certo punto finisce perché deve finire («perché pubblicare un testo? per imporgli una fine, altrimenti andremmo avanti all’infinito, non scriveremmo che il solito Universo», p. 137). È un peccato, in fondo, innocente, se è vero che non succede un bel niente, ma va anche rilevato (e rivelato) che se fosse successo qualcosa sarebbe stata una cosa a caso e «molto meno impegnativa di una stretta di mano, che spesso è il centro apparentemente calmo di un vortice» (p. 113), un patto con le parole (che ne sanno più del diavolo) ed è inutile dire che «quando amiamo, amiamo fare i difficili» (p. 113).
Comprendere è sempre una delusione ma è accettabile. Comprendere è capire che, spesso, accumuliamo solo pagine di rispecchiamenti narcisistici e sogni impossibili («Tu che ne sai, a quel tempo io non avevo voglia, e non l’avevi tu, mai di sognare, mai», p. 110), doppiati dalla nostra voce fuori campo, «noi non possiamo comprendere se non liricamente, in sotterfugio, secondo espediente, secondo figure, secondo aberrazione, per devianza e traviamento, parodia, poetica perfidia, così che ogni cosa è resa come formula, anche caricatura, ossia non è la cosa» (p. 98). La cosa detta che fa più paura della cosa stessa, la cosa bugiarda che ci raccontiamo e quella che non racconteremmo mai a nessuno, neanche a noi stessi («Potevi dirmelo prima, fingendo d’avere bisogno di me. Ma tu non sai fingere, hai veramente bisogno di me», p. 71).
Naso è una storia lunga, una bugia con le gambe corte («Non ci si abitua mai alle nostre liberazioni», p. 59), la libertà di essere quello che non siamo, di reinventarci ogni volta, per distrazione, almeno sulla carta («C’è di bello questo in te, che ogni volta di ogni cosa è la prima volta, per te, di ogni cosa. Ogni incontro è un primo incontro, ogni volta. A ogni tua lettura ritorni analfabeta. Perché dimentichi, e la dimenticanza è per te infatuazione», p. 58). Naso è il rischio di non dire niente, se lo raccontiamo e, quindi, di dire – forse – per la prima volta, esattamente quello che volevamo.
Pasquale Panella, Naso. O delle cattive letture, delle scritture impure, Fefè Editore, 2018, pp. 144