Nel male stesso – scriveva Jean Starobinski – occorre trovare il rimedio; tanto più quando questo male è così esteso che è difficile trovare un “fuori da esso”, intatto e salutare. Cominciando dalle parole, esatte il più possibile, perché – scriveva Albert Camus: - «Mal nommer les choses c’est ajouter au malheur du monde» [“Mal nominare le cose è aggiungere sventura al mondo”]. Diciamo dunque «pandemia», cioè “di tutto il popolo”, senza distinzione di età – sia ben chiaro –, né di censo, né di nazioni, né di continenti.

I secoli hanno trasmesso rimedi letterari, utili in tempo di peste: conviene certo ai giovani ‒ come consiglia qualche saggio Preside – e ai vecchi ridurci con il Boccaccio «in luoghi in contado» per distrarci dal contagio e meglio comprenderlo. Non tanto per vagare nella lunga storia della “morte epidemica” (Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus, Saramago, tra i più noti), ma per osservare quali comportamenti essa secerna nella specie umana: sembra, ad esempio, che sia largamente cresciuta la solidarietà, rispetto ai tempi di Tucidide, che osserva descrivendo la peste di Atene: «Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrario si accostavano alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavano di agire con generosità». I don Ferrante manzoniani pure sono diminuiti: «al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. […] His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle» (I promessi sposi, cap. XXXVII).

E di insegnamento sarebbe rileggere Camus, quando spiega che “salute” è bene men duraturo che saggezza, che l’ignoranza è terribilmente contagiosa: «Il male che è nel mondo discende quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può procurare altrettanti guasti che la cattiveria, se essa non è illuminata. Gli uomini sono in genere più buoni che cattivi, ma non è qui il problema; essi non sanno, chi più chi meno: ed è ciò che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede tutto sapere» (La peste).

Certo si misura, in questo periodo, lo iato incolmabile – prodotto dalle società del “consumo ubiquo” – che c’è oggi tra l’individuo, un essere ormai senza “geografia propria”, e le nazioni, statiche, che arrancano per chiudere frontiere permeabili e invarcabili solo per chi appartenga alla schiera dei profughi, i soli davanti ai quali possano erigersi barriere.

Eppure, curiosamente, il vocabolario che usiamo per il contagio è ancora totalmente geografico, da gioco delle celebri battaglie – mentre tutti schizzano dappertutto – con accerchiamenti, valli, contenimenti; mentre esso è più strisciante – e sempre più prescinde da focolai riconoscibili – tanto che meglio lo si descrive con il visionario Cecità di Saramago: «ed era arrivato alla conclusione, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe comunque potuto essere relativamente sopportabile se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficiente, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani, delle superfici e dei contorni, supponendo, è chiaro, che la suddetta cecità non fosse di nascita. Era arrivato persino al punto di pensare che il buio in cui i ciechi vivevano fosse in definitiva soltanto la semplice assenza di luce, che ciò che chiamiamo cecità fosse qualcosa che si limitava a coprire l’apparenza degli esseri e delle cose, lasciandoli intatti al di là di quel velo nero. Adesso, però, si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili».

Non siamo, bene inteso, a questo punto: ma è bene immaginare i comportamenti di una società ove i contagiati fossero più numerosi di quelli reputati sani: la scissura tra “intatti” e malati cadrebbe, dovrebbero immaginarsi tante forme intermedie di ausilio “impuro”, uscendo dall’improprio affanno di isolare l’untore. Queste accelerazioni di contaminazioni reciproche mostrano bene che l’ultima forma dell’utopia del “falansterio” è proprio il “lazzaretto” del corpo malato del mondo e della natura che ci avvolge. Il groviglio infausto delle megalopoli che abitiamo è stato ben descritto da Calvino nelle Città invisibili, in quella Leonia che è il nostro presente: «Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano».

L’epidemia di Coronavirus non può essere disgiunta da altre epidemie, solo perché queste ultime sono (per ora) circoscritte tra i reietti: la mancanza d’acqua o la pozzanghera infetta; né, per converso, la caccia al rifugio sarà mai sicura perché, appena trovato, arriverà – anzi è già arrivato – quell’“altro me stesso” più veloce, avido di “paradisi artificiali”.

Pochi sono gli aggiramenti, a parte quello, tanto squisitamente italico, dell’ironia: «Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male» (Eduardo De Filippo). La prima cura, forse, non è quella di cercare le “radici del male” (su cui ha meditato Bronisław Baczko in Job mon ami; trad. it. Roma, Manifestolibri, 2000); bensì la fatica di assumere che il contagio non finirà presto, così da agire instancabili e rassegnati, fermi e privi di illusioni come i medici della Peste di Camus, nonché la maggior parte dei nostri medici: «E se si annunciava loro un buon risultato, davano a vedere d’interessarsi, ma accoglievano la notizia con quell’indifferenza distratta che si immagina propria dei combattenti delle grandi guerre, dediti soltanto a non cedere nel loro dovere quotidiano, non sperando più né nell’operazione decisiva né nel giorno dell’armistizio». E quale il «rimedio nel male»: per la prima volta, nella storia recente della Repubblica nel secolo XXI, in un discorso pubblico, il presidente del Consiglio ha ringraziato insieme medici e operai: i medici che fan fronte – rischiando la propria salute – al male collettivo; gli operai perché, anch’essi rischiando, continuano a produrre i beni essenziali per la sopravvivenza. Le famiglie infine scoprono quanto sia difficile tenere i figli al chiuso ed educarli: preziosa funzione della scuola spesso denigrata.

Nel male il rimedio: molto perderemo, di superfluo e non, di quanto ci eravamo concessi; ma tre pilastri emergono, pietre d’angolo su cui poggiare la società a venire, probabilmente più povera e più sobria: la sanità pubblica, la tutela del lavoro, la scuola. Si torna, semplicemente, alla Costituzione.

(Alcune parti di questo intervento sono state anticipate su il Fatto Quotidiano l’1 marzo 2020)

Immagine: Piazza del Mercatello durante la peste del 1656, di Micco Spadaro (Museo nazionale di San Martino, Napoli), attraverso it.wikipedia.org

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