Era dal 1970 che uno scrittore di lingua russa non vinceva il Nobel. Quasi mezzo secolo da quando Aleksander Solženicyn si aggiudicava il più prestigioso e cospicuo riconoscimento letterario che vale circa un milione di dollari, senza contare tutte le vendite successive (quasi trent'anni se consideriamo Brodskij, che però si è diviso tra la produzione poetica in russo e la prosa in inglese ed era cittadino americano).

Svetlana Aleksievič , nata a Ivano-Frankovsk, nel 1948, in Ucraina – allora Unione Sovietica  –, da madre ucraina e padre bielorusso, era considerata tra le favorite insieme a nomi ben più noti come quello del giapponese Haruki Murakami. Ma non ne voleva parlare. Nell'incontro che ha tenuto a Milano l'anno scorso alla fondazione Balzan del Corriere della sera, per presentare Tempo di seconda mano (Bompiani), ha tagliato corto sulla domanda. Dicendo che parlarne porta sfiga. La scaramanzia è stata ricompensata.

Se il Nobel a Solženicyn, autore di diversi libri sui gulag, a partire da Una giornata di Ivan Denisovič, aveva un retrogusto da Guerra Fredda, quello alla Aleksievič non prescinde certo da una portata politica al tempo di Putin. Dal 2013, quando è uscito Tempo di seconda mano – libro collettivo dove la gente dell'ex Unione Sovietica si racconta -, è tornata a vivere in Bielorussia, l'ultimo Paese d'Europa dove il muro non è ancora caduto e imperversa il dittatore Lukašenko da diversi lustri. Anzi: mentre Ucraina e Russia sono in guerra, si è ritagliato un ruolo privilegiato o meno ghettizzato da tutti i punti di vista. Politico ed economico. Per dire: con le sanzioni che impediscono l'importazione di prodotti europei, a Mosca il parmigiano reggiano si vende travestito da grana bielorusso. All'incontro milanese, dove dialogava con Serena Vitale, la Aleksievič ha spiegato che quando sentiva i nipoti al telefono si rendeva conto che si stava perdendo la vita in famiglia e non avrebbe potuto recuperarla. E così è tornata dall'esilio europeo in Bielorussia. Per sprofondare dietro quel che resta della Cortina di ferro.

In realtà non aveva mai smesso di stare in mezzo alla sua gente proprio per la natura del suo stile, il “romanzo collettivo”. Se la moda attuale è di raccontarsi raccontando personaggi importanti, la Aleksievič – mantenendo un ruolo discreto e defilato – dà voce alla gente qualunque per raccontare grandi eventi della storia attraverso vicende personali, la vita di tutti i giorni, le emozioni, l'amore. La sua letteratura non è dunque fiction, ma deriva da una gavetta giornalistica. Ha vinto due volte il premio Kapuscinski non per niente, e ricorda il grande reporter polacco proprio nella capacità di dar spazio agli ultimi e trasformare la cronaca in letteratura. Ma diversamente da Kapuscinski, che inserisce gli incontri con l'uomo e la donna della strada in una narrazione più giornalistica e storica, la Aleksievič ha uno stile più emotivo, una sensibilità più femminile e romanzesca.

Sempre malvista dal potere, ha avuto molto successo nel libro di esordio in cui ha raccontato la seconda guerra mondiale attraverso le donne, le mogli e le figlie dei veterani e delle vittime (La faccia non femminile della guerra). Con la perestrojka i problemi sembravano diminuiti, ma Ragazzi di zinco, il suo libro sulla guerra in Afganistan – scritto attraverso lo stesso punto di vista collettivo – era troppo anche nel periodo delle riforme gorbaceviane. Ha quindi scritto dei suicidi seguiti al crollo dell'Unione sovietica (Incantati dalla morte) e del disastro nucleare in Ucraina in Preghiera per Černobyl', editi in Italia dalla casa editrice e/o, un tempo molto attenta alla narrativa dell'Est e che oggi meritatamente raccoglie i frutti di un residuo di attenzione.

Ma chi oggi legge più gli autori di lingua russa contemporanei? Il Nobel alla Aleksievič - capitato in un momento politico di grande tensione tra Mosca e l'Occidente -, è un bellissimo motivo per iniziare a farlo. Per la Aleksievič sarà la possibilità per vivere accanto alla famiglia in Bielorussia con la protezione che dà un Nobel. Per scrivere un libro, ha spiegato, impiega dai cinque ai dieci anni. Viaggia. Intervista centinaia di persone. Potrà tranquillamente continuare a farlo. Dietro a ogni homo sovieticus ci sono storie incredibili, c'è un romanzo. O anche di più. E qualcuno deve pur scriverlo.Qualcuno deve pur dare voce a queste "piccole voci dalla Grande Utopia", che qui non sentirebbe nessuno.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata