«Sei venuta nel posto giusto per trovare una risposta» è la rassicurazione che il famoso van-dweller Bob Wells fa al personaggio di Fern, interpretato da Frances McDormand, in una delle più toccanti scene del film premio Oscar Nomadland.

Il “posto giusto” è un territorio in Arizona dove ha luogo il raduno di nomadi conosciuto come Rubber Tramp Rendezvous. Una landa desolata che non offre niente se non un enorme spazio di aggregazione dove ogni anno più di diecimila persone che girano l’America in camper e minivan si incontrano per condividere e scambiare esperienze, strumenti utili e consigli per cavarsela con il loro stile di vita.

È un fenomeno infatti relativamente recente che vede protagonisti cittadini in età pensionabile che hanno ancora la necessità di svolgere lavori occasionali per sbarcare il lunario. Il nomadismo non è solo la soluzione più economica ma anche quella che meglio risponde al loro intimo desiderio di evasione, rendendoli parte di una tradizione tutta americana. Si tratta tuttavia di una vita tortuosa come i deserti delle Badlands in cui sostano, costellata di lavori a volte mortificanti, cibo in scatola, bagni chimici e guasti al motore.

Per la solitaria viandante Fern, la nostra guida nel viaggio fisico e spirituale in questa realtà a noi sconosciuta, il raduno è una tappa necessaria non solo per tutti gli insegnamenti pratici che può ricevere ma per la condivisione umana di cui ha un bisogno più forte e lacerante.

Come sopravvivere all’America del Ventunesimo secolo è il sottotitolo del libro scritto da Jessica Bruder da cui è tratta la pellicola, e una storia di sopravvivenza infatti è quella che si dispiega davanti a noi.

Pur indagando le dure privazioni della vita nomade, il film non ne romanticizza le difficoltà. Non fermandosi alla sola denuncia dell’ingiustizia accettata da queste persone che dovrebbero potersi godere l’arrivo della terza età comodamente e invece si ritrovano sole, senza una fissa dimora e costrette ad un’instabilità economica mortificante.

Lo sguardo della regista Chloé Zhao è sensibile e potente proprio perché non limita il racconto della sopravvivenza di queste persone al riuscire a superare la notte, la giornata di lavoro sfiancante, la stagione ostile, ma sposta il focus con curiosità e rispetto sulla sopravvivenza dell’anima, dell’umano, ovvero la loro identità collettiva, il senso di comunità.

La parola comunità è legata all’appartenenza ad un luogo, un luogo che i van-dwellers, dispersi tra i cinquantuno Stati, formalmente non hanno. Per sopravvivere se lo creano costruendo nuovi spazi sociali, contesti e realtà parallele alla vita che conoscevano prima.

L’alienazione del nomadismo si supera con il tentativo di mantenere le poche e preziose amicizie tra un posto di lavoro e l’altro, con il nascere di affetti e attrazioni inaspettati, con la condivisione spesso dolorosa di memorie, l’aiuto reciproco e con lo sforzo di definirsi grazie alle proprie scelte invece che arrendersi a quello che agli occhi di molti appare come un tragico ripiego.

Ed è così che Fern comprende il suo percorso e lo spiega. Lei è house-less non home-less. Quello che le manca sono le quattro mura dove abitare ma la sua casa è il suo van, il suo deserto, i suoi compagni di viaggio.

Da reietta invisibile di una società che l’ha scartata, che ha distrutto la sua città e che ora la sfrutta come forza lavoro malleabile, ritrova l’esigenza di appartenere, di essere vista, ascoltata, apprezzata, di provare orgoglio ed è per questo che la scelta di vivere on the road diventa imprescindibile.

Nomadland è un’esperienza filmica inusuale. In essa convivono l’esigenza documentaristica di analizzare la vita di questa comunità mostrando luoghi e testimonianze reali, ad esempio le aree di sosta dei centri di spedizione Amazon dove vivono personaggi conosciuti della comunità nomade come Linda May o il sopracitato Bob Wells, e la necessità di raccontare una storia che possa condurre emotivamente lo spettatore degna del grande schermo (tanto atteso).

Da questa tensione tra finzione e realtà nasce un’opera unica nella sua capacità di trovare liricità nel dolore e viceversa, come spiega Lidija Haas nella sua review del film per The New Republic. Un’opera che ci ricorda, ancora una volta, che nessuno si salva da solo.

Non potevamo ricominciare ad andare al cinema con film migliore.

Crediti: l’immagine è un fotogramma tratto dal video: NOMADLAND (2021) Trailer ITA del film con Frances McDormand (FilmIsNow Trailer & Clip in Italiano), (www.youtube.com)

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